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Trattativa Stato-mafia, i pm hanno sbagliato tutto: la verità su Mori e Dell'Utri

Paolo Ferrari
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«I carabinieri non hanno commesso alcun reato. La loro fu solo un'attività lodevole e meritoria, come poi è stato scritto in un'altra sentenza del tribunale di Palermo, passata in giudicato». A dirlo a Libero è l'avvocato Basilio Milio, difensore del generale dell'Arma Mario Mori.

Ieri sono state depositate le motivazioni della sentenza della Corte d'assise d'appello di Palermo, circa 3000 pagine, che lo scorso anno aveva assolto i carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dall'accusa di aver imbastito una trattativa con Cosa nostra. Insieme ai carabinieri era stato assolto anche l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri. Condannati, invece, i boss Leoluca Bagarella e Antonio Cinà. Prescritto il pentito Giovanni Brusca.

«La sentenza, con una corretta interpretazione delle prove - prosegue l'avvocato Milio -, esclude qualunque responsabilità morale dei carabinieri per la morte del magistrato Paolo Borsellino, affermando che l'accelerazione nell'esecuzione della strage di via D'Amelio a Palermo (avvenuta il 19 luglio 1992, ndr) non fu causata da "trattative" di sorta, come invece scritto nella sentenza di primo grado (che aveva condannato i carabinieri, ndr), ma "possa avere trovato origine nell'interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti" del Ros».

FINI SOLIDARISTICI
In altre parole, è stato escluso, prosegue l'avvocato Milio, «che i carabinieri abbiamo commesso reati quando contattarono Vito Ciancimino (ex sindaco mafioso di Palermo, ndr), in quanto avevano "effettivamente come obiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento di ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane", ossia furono mossi "da fini solidaristici (la salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale - e fondamentale dello Stato", come si può ben leggere nella sentenza». È dunque «l'ennesima sconfessione di teoremi giudiziari che perseguitano da vent' anni chi ha veramente combattuto contro la mafia», aggiunge quindi il difensore del generale Mori.

Non c'è mai stato, quindi, alcun patto scellerato tra uomini delle istituzioni e la mafia, e non c'è stata la trattativa teorizzata dalla Procura di Palermo e oggetto di una narrazione a senso unico da parte di diversi organi di stampa. A compiere la tentata minaccia a tre differenti governi della Repubblica è stata la mafia stessa, e gli attentati del '93 erano serviti per minacciare lo Stato: la finalità era di piegarlo e avere, magari, dei benefici. La storia di quegli anni descrive uno Stato che non solo non si è piegato, ma ha reagito con determinazione, arrestando i mandanti delle stragi, ad iniziare da Totò Riina. Ed infatti il reato contestato era di "tentata minaccia".

Sicuramente questa sentenza è una grande sconfitta per i pm palermitani, che per decenni hanno insistito sul teorema della trattativa, cominciando da Antonio Ingroia. Con lui anche l'attuale consigliere del Csm Nino Di Matteo. I giudici, tornando a quegli anni, hanno anche effettuato una ricostruzione sul clima che si respirava alla Procura di Palermo quando era procuratore Pietro Giammanco. A differenza di Borsellino, però, i giudici della Corte non hanno ritenuto gli uffici giudiziari del capoluogo siciliano "un nido di vipere".

RICORSO IN CASSAZIONE
Questa sentenza arriva tre anni e mezzo dopo quella di primo grado ed ha respinto interamente le richieste della Procura generale, allora guidata da Roberto Scarpinato, sostenute in udienza dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera. Quest' ultimi per la presentazione del ricorso in Cassazione avranno tempo fino al prossimo 15 ottobre. In serata è intervenuto con un post su Fb anche l'avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino. «Siamo sempre più vicini alla verità sulla strage di via D'Amelio» ha detto Trizzino, paragonandola alla scalata del monte Everest: «Più si va avanti e più l'aria è rarefatta e gli ostacoli potenti e quasi invincibili. Oggi siamo a 6000 metri, la vetta è vicina, raggiungerla significherebbe guardare dentro a certi santuari intoccabili che solo a tentare di farlo si corre il rischio di essere trasformati in una statua di sale».

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