I magistrati che giudicano, condannano e imprigionano le persone in nome del popolo italiano dovrebbero comprendere che questo, il popolo, non ha solo il potere di incaricarli a quell'ufficio, ma anche di far cambiare ai propri eletti le leggi che riguardano l'amministrazione della giustizia. Pare che a certa magistratura militante, quella che insorge davanti a ogni ipotesi di riforma, la volontà popolare piaccia parecchio quando fa girotondo sotto ai balconi delle Procure per festeggiare i rastrellamenti giudiziari, e invece dispiaccia e indispettisca quando si esprime tramite la classe parlamentare e di governo che osa immaginare qualche riforma capace di lambire anche leggermente lo stato del potere giudiziario.
L'autonomia e l'indipendenza della magistratura, queste patacche apposte sulla pretesa anticostituzionale del potere togato di farsi contro-governo e decisore di ultima istanza quando si discute di qualsiasi cambiamento in materia di giustizia, sono puntualmente adoperate per spacciare l'idea falsa che l'interesse particolare di quella congregazione coincida con quello generale: di modo che attentare all'uno significherebbe pregiudicare l'altro.
In realtà non c'è nessuna prova di quella coincidenza, anzi c'è prova del contrario, e semmai è vero che alla riaffermazione del potere giudiziario, all'inibitoria delle riforme da decenni necessarie, corrisponde proprio il depauperamento dei diritti del popolo italiano, quello in nome del quale è pronunciata molto spesso una giustizia ingiusta senza che chi la pronuncia possa mai essere chiamato a risponderne. Non sembri eccessivo: ma nell'irresponsabilità, nella pompa, nel sussiego, nell'attitudine reazionaria della magistratura militante c'è qualcosa dell'ayatollah.