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Walter Lavitola contro i legali di Berlusconi: "Ho la mia idea, ma temo querele"

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Dal testamento di Silvio Berlusconi è spuntato qualcosa anche per Valter Lavitola. Non 3o milioni di euro, come per l'amico Marcello Dell'Utri. Ma una lettera privata, pesantissima: un interrogatorio difensivo, riporta il Fatto quotidiano, che il Cav "avrebbe dettato a febbraio, pochi mesi prima di andarsene, ai suoi avvocati e a quelli dell’ex direttore dell’Avanti. Grazie a questo verbale, Lavitola riteneva di poter aprire un’istanza di revisione della sentenza di condanna per la tentata estorsione proprio nei confronti dell’ex premier, andata in giudicato nel 2013". Di fatto, una lettera per scagionare l'ex collaboratore e negare, con fermezza, l'ipotesi della estorsione.

 

 

 

Purtroppo per Lavitola, la Corte d’Appello di Roma ha giudicato inammissibile l’istanza e ora resta l'ultima speranza in Cassazione. "Per me queste pagine sono il risarcimento di una grande ingiustizia che avevo subito", spiega lo stesso Lavitola al quotidiano diretto da Marco Travaglio. "So che voi non riuscite a immaginare un dono diverso dai soldi, da uno come Berlusconi. Ma per me è così", aggiunge poi polemicamente.

 

 



Il Fatto gli ricorda che la sua condanna fu causata anche dalla scelta di Berlusconi di avvalersi della facoltà di non rispondere davanti ai magistrati. "Fu la prima cosa che gli rinfacciai quando lo rividi, nel 2016, dopo essere uscito dal carcere. Lui rispose che non era vero, io gli feci leggere la sua dichiarazione a verbale e rimase basito. Gli chiesi di rimediare, di dire la verità in un interrogatorio difensivo. Mi promise che l’avrebbe fatto subito". Ma quella lettera è arrivata solo dopo la morte del fondatore di Forza Italia. "Ho la mia idea su come si sono comportati gli avvocati di Berlusconi, ma se gliela dico sono passibile di querela. Agirò in altra sede", taglia corto Lavitola. 

 

 

 

Tornato in libertà nel 2016, Lavitola in quei mesi ebbe frequenti contatti con il Cav, "lunghe riunioni quasi quotidiane. Io volevo ripartire con le mie attività e gli chiedevo sostegno per una serie di progetti in Africa e Sud America. Si era reso disponibile per darmi una mano e presentarmi dei partner imprenditoriali. Berlusconi mi dava appuntamento verso mezzanotte, era un po’ come se volesse nascondermi. Era stanco, aveva fatto da poco l’operazione al cuore, le mie richieste erano stressanti. A febbraio decise che a gestire le nostre questioni sarebbero stati suoi avvocati di fiducia". E lì il filo diretto si interruppe. 

Invischiato in storie come la casa di Fini a Montecarlo, Tarantini e il giro di escori o la compravendita di parlamentari, Lavitola si sfoga: "Non sono un santo, come non lo era lui. Forse sono ancora meno santo di lui. Ma la gran parte dei 23 procedimenti che sono stati avviati su di me, in pochi mesi di indagini, sono stati archiviati. La compravendita era un fatto reale, anche se è stata prescritta. La questione di Fini pure è vera, ma non era un reato". In uno dei primi interrogatori in tribunale, rivela, "mi fu detto a verbale, o forse fuori verbale, che se avessi raccontato qualcosa su Berlusconi, io sarei uscito e lui sarebbe entrato. Mi è passata in mente la scena di lui in galera a quell’età, un uomo di quel livello. Avrei potuto raccontare qualsiasi favola per farlo arrestare, ma non ebbi il coraggio". E, aggiunge, "oggi non me ne pento".

 

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