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Solo una coraggiosa riforma della giustizia può eliminare i giudici politicizzati

Francesco Carella
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Si fa sempre più critica nel nostro Paese l’annosa questione relativa ai rapporti fra la sfera della politica e la sfera della giurisdizione. Riportare sui binari della correttezza costituzionale l’argomento è a dir poco impossibile. Infatti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio dichiara, in punta di diritto, che, a suo avviso, Matteo Salvini e Daniela Santanchè devono «restare al loro posto», perché «altrimenti devolveremo alla magistratura il potere di eliminare una carica legittimata dal voto popolare», ma riceve, in tutta risposta, inutili polemiche in luogo di argomentazioni razionali. Si tratta solo dell’ultimo episodio di una lunga catena di anomalie a causa delle quali in Italia si sta mettendo seriamente in pericolo l’equilibrio costituzionale che disciplina i rapporti fra i poteri dello Stato in una liberaldemocrazia. In altri termini, la politica intesa come spazio autonomo dove legislatori e amministratori, in qualità di legittimi rappresentanti del cittadino elettore, assumono decisioni a valenza collettiva viene “giudiziarizzata”, subendo una drastica riduzione del proprio perimetro di responsabilità. Non vi è Paese democratico, come dimostrano studi comparati, che non sia stato investito da cambiamenti di tal guisa i cui governi non abbiano reagito attraverso adeguate contromisure, a partire dalla separazione delle funzioni requirenti da quelle giudicanti. Nel nostro, viceversa, l’esondazione giudiziaria non ha incontrato né argini né bacini di compensazione.

In Italia, almeno a partire dalla stagione di Tangentopoli, tale anomalia ha assunto via via un carattere più marcato fino a trasformare il conflitto politico - che per sua natura necessita di ampi spazi di autonomia - in uno scontro prevalentemente di tipo etico. Del resto, il risultato finale non poteva avere carattere diverso, dopo che- in forza della svolta moralistica compiuta dal Pci nei primi anni ’80 - l’intera storia dell’Italia repubblicana è stata narrata come una lunga e ininterrotta catena di corruzione, mentre il mondo politico e civile riceveva un taglio netto: da una parte, i titolari della “diversità morale” (dirigenti, militanti e intellettuali progressisti) dall’altra, un esercito di cittadini italiani perennemente impegnati nel malaffare. In un contesto culturale siffatto, non deve destare meraviglia che la magistratura, soprattutto nella sua espressione requirente, sia divenuta, nel frattempo, protagonista di primo piano della vita politica fino a condizionarne tempi e svolgimenti.

 

 

Lo storico Carlo Guarnieri in “Democrazia giudiziaria”, dopo avere ricordato che le relazioni tra giustizia e politica sono molto complesse sia per i valori in gioco che per i molti punti di contatto tra le due sfere, avverte che «lo si percepisca o meno è il giudice politico che oggi le democrazie si trovano davanti. Pertanto, la ricerca di appropriate soluzioni istituzionali non può essere assolutamente trascurata soprattutto in un Paese come l’Italia dove la giustizia ha assunto un rilievo politico cruciale. Il pericolo è quello di doversi confrontare con un potere irresponsabile, anzi con un potere senza responsabilità democratica. Se si rinuncia alla regolazione istituzionale si corre il rischio di lasciare il campo libero ad altre e più opache forme di influenza». Di qui l’urgenza di una coraggiosa riforma della giustizia. L’alternativa è un futuro sempre più segnato da forme di democrazia illiberale. 

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