«Mi pare che si stia mettendo in pratica un progetto che, visto nel suo complesso, scardina gli architravi sui quali è stata costruita la nostra democrazia costituzionale. Penso all’autonomia differenziata, alla riforma del premierato, alla riforma della giustizia, alla legge sicurezza. Cambia non solo l’equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, così sapientemente disegnato dai nostri costituenti nella preoccupazione di garantire che non si potesse giungere a una dittatura della maggioranza, ma anche il rapporto tra potere e cittadini». Così, parlando del governo di Giorgia Meloni, ha detto verso la conclusione di una lunga intervista al direttore del Foglio Claudio Cerasa non la segretaria del Pd Elly Schlein, non il suo concorrente alla guida della futuribile alternativa al centrodestra, l’ex presidente pentastellato del Consiglio Giuseppe Conte, ma la giudice in carriera Silvia Albano, presidente della storica corrente di sinistra delle toghe chiamata Magistratura democratica.
Sono parole, quelle della dottoressa Albano, non certo sorprendenti per la storia della sua corrente, ripeto, e per i suoi recenti interventi professionali, cioè giudiziari, che l’hanno persino orgogliosamente opposta al governo per l’applicazione che questo si aspettava delle norme disposte per contrastare l’immigrazione clandestina. Ma sorprendenti per chi, leggendo la prima parte dell’intervista, si era illuso che il buon Cerasa facesse il miracolo propostosi, sulla scia di quanto ottenuto di recente da Antonio Di Pietro, non dico di convertire, per carità, ma di spostare di qualche metro o centimetro la posizione della sua interlocutrice nota, a torto o a ragione, come la capa delle “toghe rosse”. E così rappresentata anche nel titolo, in rosso anch’esso, dedicatole in prima pagina dal Foglio.
Con quella risposta alla domanda sul governo Meloni, preceduta del resto dalla natura “resistenziale” rivendicata dalla giudice per il referendum cui l’associazione dei magistrati intende partecipare attivamente contro la riforma della giustizia all’esame del Parlamento, la giudice Albano ha buttato, volente o nolente, un barattolo di vernice, non dico di quale colore, sulla tela che il povero Cerasa voleva completare di una magistrata polemica sì, anche di punta, ma non del tutto salita sulla montagna per «resistere», come dicevo, al governo propostosi di instaurare «la dittatura della maggioranza». Preferibile forse a quella della minoranza, ma pur sempre dittatura.
Il buon Cerasa ha ugualmente esposto come bandierine o trofei, nei sommari apposti ai titoli sulla sua intervista alla dottoressa Albano, il riconoscimento strappatole di una certa ragionevolezza della «inappellabilità di primo grado» prospettata dal ministro della Giustizia, o l’ammissione che «ci siano state occasioni in cui la magistratura ha pestato il fianco a critiche», o il riconoscimento degli «aggettivi di troppo» negli atti dei pubblici ministeri, e persino nelle sentenze. Ma il risultato o quadro complessivo della tentata conversione della «capa delle toghe rosse» è stato francamente negativo.
Il guaio maggiore dell’Anm è tuttavia quello di essere rimasta a sinistra, diciamo così, pur sotto la presidenza del moderato Cesare Parodi, di Magistratura indipendente. Che ha come il fiato addosso quello del segretario Rocco Maruotti, di Area democratica, affine all’omonima Magistratura. Il referendum contro la separazione delle carriere e il resto le vedrà tutte appassionatamente insieme. Un referendum la cui campagna è paradossalmente cominciata, come solo tra i magistrati poteva accadere, prima ancora che sia stata approvata del tutto la riforma Nordio in Parlamento.