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Il Pd perde la faccia sulla giustizia: quando mezzo partito...

di Fausto Carioti lunedì 28 luglio 2025

4' di lettura

Dinanzi alla riforma della giustizia, il Pd si divide in tre categorie. Ci sono i contrari da sempre, perché convinti che la lotta di classe passi anche attraverso le procure e i tribunali, oppure perché preferiscono tenersi buoni i coccodrilli con la toga, sperando che si mangino solo i loro rivali di centrodestra. Elly Schlein e i suoi appartengono a questo gruppo.

Poi ci sono quelli che credono davvero nel garantismo e nel primato della politica, vedono con favore la separazione delle carriere e non hanno paura di dirlo in pubblico, sfidando le ire della segretaria. Il riformista Tommaso Nannicini, candidato non eletto alle Politiche del 2022, è uno di questi pochi, e lo ha scritto sulla Stampa: «Giudice e pubblico ministero dovrebbero avere ruoli distinti: il primo terzo e imparziale, il secondo parte nel processo. Eppure, continuano a condividere concorsi, carriere e organi di autogoverno». Infine, c’è il folto gruppo delle banderuole: quelli per cui la separazione delle carriere era necessaria e urgente quando la volevano loro, ma adesso è un attentato alla democrazia.

Sono quelli che aderirono alla mozione “Fianco a fianco per cambiare l’Italia”, coordinata proprio da Nannicini, con la quale, nel 2019, Maurizio Martina si candidò alle primarie del Pd. Nella parte in cui spiegava come riformare la giustizia, quel testo era cristallino: «La realizzazione di un processo basato sulla parità delle parti e la terzietà del giudice è il nostro progetto in materia di giustizia penale. Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale». Notare: «Il nostro progetto».

La stessa filosofia che oggi ispira Carlo Nordio e gli esponenti della maggioranza. Tra chi sottoscrisse quelle parole c’erano Debora Serracchiani, nel frattempo riciclatasi come pretoriana di Schlein e diventata responsabile Giustizia del Pd, e gli attuali parlamentari Alessandro Alfieri, Mauro Berruto, Matteo Mauri, Dario Parrini e Valeria Valente. Che dicono oggi di quella riforma?

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Serracchiani è la capofila degli indignati. Sostiene che «separare le carriere dei magistrati», cioè fare quello che lei stessa proponeva, «è un attacco grave alla Costituzione» e «significa piegare la giustizia al potere politico». Stessa coerenza del senatore Alfieri. Un mese fa, intervenendo in aula, ha spiegato ciò che pensa ora di ciò che voleva fare nella legislatura scorsa: «I cittadini sono interessati alla velocità dei processi e all’efficienza complessiva del sistema; non trovo cittadini interessati alla separazione delle funzioni o delle carriere». I problemi veri sono diventati altri. La riforma, ha proseguito, è «un pastrocchio che non fa l’interesse del nostro Paese, non affronta i nodi della giustizia e crea un clima sempre più insopportabile di scontro tra poteri dello Stato».

Berruto, almeno, ha l’attenuante dell’inesperienza. Prima del 2022 era stato giocatore e allenatore di pallavolo, arrivando a coprire il ruolo di commissario tecnico della nazionale maschile. Oggi è deputato e responsabile del Pd per le politiche dello Sport. Aveva firmato la mozione per Martina, ora segue la linea Schlein. A gennaio, interpellato dal Foglio sulle ragioni del ripensamento, si è appellato alla clemenza della corte: «Guardi, all’epoca non ero un parlamentare né un tesserato al Pd. Il mio era un sostegno alla persona. Adesso preferisco esprimermi solo sulla mia materia di competenza, che è lo sport». 

Per inciso: in quella mozione non vi era neanche un accenno allo sport, mentre di giustizia si parlava eccome. Berruto ha aderito a un documento in cui sono scritte cose che non condivide, e nel quale non si affrontava l’unica materia su cui si dichiara competente. Martina doveva piacergli davvero molto. Di sicuro piaceva al milanese Mauri, che fu coordinatore del Pd durante la breve segreteria di Martina. Non al punto, però, da difendere ancora ciò in cui credeva quando era in squadra con lui. Ora Mauri sostiene che «la riforma della separazione delle carriere è sbagliata alla radice e non migliorerà la giustizia né accelererà i processi». Lasciando il dubbio su quale sia il Mauri che si piega per necessità di carriera: quello di allora o quello di oggi?

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Parrini è un altro campione di flessibilità. Renziano della primissima ora, poi nella corrente di Base riformista, quindi vicino a Enrico Letta e infine allineato a Schlein. Come tale, convinto denigratore della separazione delle carriere: «Una riforma costituzionale pericolosa e sgangherata», «un feticcio ideologico» che serve a «spazzare via l’autonomia e l’indipendenza della magistratura».

L’elenco dei pentiti è lungo (c’è Matteo Orfini, tra i tanti), ma la senatrice Valente merita una menzione. Anche lei oggi racconta che i problemi veri sono altri: «Servirebbero giudici specializzati, maggiore efficienza degli uffici, risorse umane e strumentali», e chi vuole separare le carriere «punta al potere assoluto». Almeno fa chiarezza: il loro grande «progetto» era per il bene dell’Italia, quello della destra è per instaurare un regime, e fa niente se i due progetti sono uguali.

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