C’è un documento dell’ufficio studi della Camera dei Deputati (A.C 891 n.47) del 22 settembre 2008 che toglie ogni dubbio intorno alla questione se un non parlamentare possa godere della prerogativa concessa ai parlamentari (l’autorizzazione a procedere). Il documento in questione accompagna la “Deliberazione per l’elevazione di un conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria” che si è tenuta nell’assemblea di Montecitorio il 16 maggio 2007. Al paragrafo “Procedimento Parlamentare” si chiarisce chi siano i cosiddetti indagati “laici”. Le domande di autorizzazione a procedere, si legge, «sono esaminate» prima «dalla Giunta competente in materia di immunità», quindi «dall’Assemblea, che si riunisce entro il termine massimo di 60 giorni dalla data in cui gli atti sono pervenuti al Presidente della Camera o del Senato». I tecnici della Camera aggiungono, poi, che «occorre ricordare che il procedimento può riguardare, oltre che i ministri, anche eventuali coindagati, cosiddetti “laici”». In questo caso, «il procedimento parlamentare si svolge anche nei loro confronti con le modalità adottate per il ministro».
Dunque, già la legge vigente prevede il caso in cui si potrebbe trovare la capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giusi Bartolozzi. Se fosse indagata, si deduce da questo documento, godrebbe delle stesse prerogative riservate al ministro (e dunque si dovrebbe chiedere anche per lei l’autorizzazione a procedere), visto che le sarebbe contestato un reato “ministeriale”, ossia connesso a un comportamento del ministro con cui lavora.
Intanto ieri è emerso il carteggio intercorso a maggio tra l’avvocato Giulia Bongiorno, difensore degli esponenti del governo coinvolti nel caso Almasri, e il Tribunale dei Ministri. Dallo scambio emerge che, per l’esecutivo, l’esponente che ha «coordinato le varie fasi» del caso è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. Proprio per questo Bongiorno aveva chiesto che fosse sentito. Ma il Tribunale dei Ministri non ha voluto, cosa che a Palazzo Chigi viene considerata piuttosto stravagante. Il “ruolo” di Mantovano è messo nero su bianco in una missiva di due pagine inviata da Bongiorno agli uffici di piazzale Clodio il 22 maggio scorso. I magistrati avevano chiesto di sentire Nordio. L’avvocato risponde che il ministro rinuncia all’interrogatorio, ma, nello stesso tempo, propone al Tribunale di ascoltare il sottosegretario. «In relazione alla notifica al ministro Nordio dell’invito a presentarsi a rendere interrogatorio per il giorno 23 maggio», si legge, «e nell’ipotesi in cui l’esigenza avvertita dal Tribunale dei Ministri nel disporre l’interrogatorio sia quella di acquisire elementi conoscitivi anche dal governo, nelle persone dei soggetti iscritti nel registro degli indagati, si comunica che l’esponente dell’Esecutivo che ha coordinato le varie fasi della vicenda oggetto di accertamento è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri Alfredo Mantovano». Dunque, informando della rinuncia di Nordio, si ribadisce la «disponibilità del sottosegretario», il cui interrogatorio «è da intendersi riassuntivo delle posizioni di tutti gli indagati».
Il 28 maggio i giudici rispondono, spiegando di non ritenere «fungibili» le posizioni dei due indagati e di «non ravvisare, allo stato, l’esigenza di sentire Mantovano». Una scelta che per Palazzo Chigi è molto irrituale, visti peraltro, si osserva, i tempi lunghi, «sei mesi e mezzo», per chiudere la pratica da parte del Tribunale dei ministri.