In attesa del referendum di primavera, ieri in Senato è diventata legge l’altra riforma della giustizia: quella che riguarda la magistratura contabile, figlia della proposta presentata da Tommaso Foti, di Fdi, prima di diventare ministro. Un intervento profondo, che modifica sia la legge del 1994, sulla giurisdizione e i poteri di controllo della Corte dei conti, sia il Codice della giustizia contabile del 2016. L’obiettivo principale è eliminare la “paura della firma” che colpisce gli amministratori pubblici, i quali, per paura di subire addebiti, scelgono spesso di fare il meno possibile, rinunciando anche a interventi che sarebbero utili alla collettività. Sebbene nella grande maggioranza dei casi quei processi si concludano con l’assoluzione, ne risultano comunque carriere (e talvolta vite) rovinate.
Una sindrome che la riforma cura ridefinendo il ruolo della Corte dei conti, che diventa organo di supporto degli amministratori, ai quali dovrà fornire un controllo preventivo di legittimità sugli atti più rilevanti, in modo che chi firma non debba più rischiare di incorrere in processi per danno erariale. Un “semaforo verde” pensato soprattutto per le opere del Pnrr e che sgombra il campo dall’ipotesi di colpa grave, ossia da inadempienze o negligenze inescusabili. Mentre nell’eventualità di condotte caratterizzate da colpa (esclusi quindi i casi di dolo e illecito arricchimento), il responsabile sarà chiamato a rispondere per non oltre il trenta per cento del danno causato, e comunque per una somma non superiore a due annualità del proprio stipendio.
Viene introdotto, inoltre, un nuovo meccanismo di silenzio-assenso: se nel giro di trenta giorni la Corte dei conti non fornisce il proprio parere all’amministrazione che lo ha richiesto, la nuova legge stabilisce che «lo stesso si intende reso in senso conforme a quanto prospettato dall’amministrazione richiedente». La luce verde si accende comunque. Tutto questo in mezzo alle critiche di una parte consistente dei magistrati (contabili e no) e alle accuse della sinistra, per la quale queste norme «portano a una decisiva deresponsabilizzazione degli amministratori e della burocrazia e limitano la capacità di controllo della Corte dei conti» (Alfredo Bazoli, senatore Pd).
Ad approvazione avvenuta (93 voti favorevoli, 51 contrari, astenuti i 5 senatori di Italia Viva) è il sottosegretario Alfredo Mantovano a rispondere alle contestazioni. Innanzitutto, la riforma non è una «vendetta» per lo stop della Corte dei conti al ponte sullo Stretto, come qualcuno nell’opposizione ha sostenuto. «L’iter di questa riforma parte all’incirca due anni fa, in Senato è approdata nel marzo di quest’anno», ricorda Mantovano. Dunque «legarla al provvedimento della magistratura contabile sul Ponte, che è intervenuto poco più di un mese fa, sembra, per usare un eufemismo, una forzatura».
Che non ci sia un intento punitivo lo dimostra anche il fatto che, mentre la proposta era discussa in parlamento, «vi è stata una costante interlocuzione con i rappresentanti della Corte dei conti, che ha permesso di modificare più di una delle norme dell’impostazione originaria». Tanto che tra gli stessi giudici contabili alcuni hanno dichiarato di apprezzare le nuove regole.
Riguardo alle critiche nel merito, a chi ritiene quel risarcimento del trenta per cento un regalo ai politici locali, Mantovano replica che «chi commette fatti con dolo che hanno rilievo contabile risponde al cento per cento, anzi con le maggiorazioni previste. Quindi non c’è nessuna copertura di frodi e reati assimilabili». Quanto a chi determina danni per colpa, «credo che per un dipendente pubblico rimanere due anni senza stipendio non sia una cosa così leggera».
Bisogna infatti «uscire dall’ipocrisia», avverte il sottosegretario, perché finora gli introiti da simili procedimenti sono stati «al di sotto del dieci per cento rispetto al danno accertato. Se si arriva al trenta per cento è senza dubbio un vantaggio per la collettività», oltre che «un atteggiamento meno oppressivo per chi, comunque, non ha eseguito queste condotte per un’attività dolosa, ma perché confuso da orientamenti giurisprudenziali difformi o da norme non ben interpretate».
Quanto al limite dei trenta giorni prima che scatti il silenzio-assenso, Mantovano fa presente che il termine «è già previsto dall’ordinamento, però non sappiamo che cosa succede se viene sforato». Con la riforma si sa, «e se la questione richiede approfondimento, in base alle nuove norme si può arrivare fino a novanta giorni. Un termine più che congruo per intervenire».