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Vaticano, così fanno pagare ai fedeli gli sprechi e i debiti della Santa Sede

Sperperi, investimenti bizzarri, faccendieri, un palazzo londinese costato uno sproposito; la verità sull'Obolo di San Pietro e sui conti della Chiesa
di Francesco Specchia lunedì 28 giugno 2021

 Monsignor Angelo Perlasca

4' di lettura

A Londra, nella sciccosa Sloane Avenue, s’erge un palazzotto, un ex magazzino di Harrod’s, un groviglio di mattoni e acciaio che fa molto spietati squali della city. Invece, acquistato per 300 milioni da un finanziere italo-inglese, Raffaele Mincione, quel palazzotto, di proprietà della Chiesa, rappresenta l’altare laico dell’incompetenza finanziaria del Vaticano.

 “Se sapesse che abbiamo fatto l’operazione così delicata senza un’assistenza legale siamo attaccabilissimi. Faremmo un altro guaio. Cerchiamo di prendere un’altra settimana di tempo”. “Noto che rinunciamo a qualsiasi azione futura, ma non sappiamo come stanno le cose, come sono gli affitti, come sono i contratti sottostanti”. Così, in uno scambio inedito di WhatsApp, monsignor Alberto Perlasca, una sorta di direttore generale del Tesoro della Santa Sede, esprime i suoi dubbi a Fabrizio Tirabassi, il suo impiegato accusato di corruzione sull’operazione finanziaria che ha fatto saltare vertici del Vaticano, infuriare il Papa. Questo e molti altri documenti -tratti da interviste, scambi epistolari disarmanti, gole profonde col turibolo- sono la base su cui è costruito il libro-inchiesta I mercanti nel tempio (Solferino pp 258, euro 17) scritto da Mauro Gerevini e Fabrizio Massaro. I quali forniscono particolari inediti su come il Vaticano sia riuscito a bruciare la metà del famoso “obolo di San Pietro” in uno sconcertante crescendo di sprechi e incompetenze che parte dall’impenetrabile “Sezione affari generali della Segreteria di Stato” guidata per anni dal cardinale Angelo Giovanni Becciu e arriva fino al conto personale del Papa. L’obolo di San Pietro –la cui raccolta è iniziata domenica e finisce domani-  non è soltanto un simbolo di carità cristiana, “l’aiuto economico che i 1,2 miliardi di fedeli, ogni anno offrono al Santo Padre, come segno di adesione alla sollecitudine del Successore di Pietro” per le molteplici necessità della Chiesa universale e per le opere di carità in favore dei più bisognosi. Non è solo questo. E’ anche, laicamente, lo strumento finanziario con cui il Vaticano ripiana, ogni anno, il suo debito strutturale. Si parla, secondo Gerevini e Massaro di 308 milioni (-90 milioni solo nel 2020, -50 quest’anno, finora). Nel 2019 la raccolta dell’Obolo è stata di 53,86 milioni di euro; nel 2020 è calata a 44,1 milioni di euro, secondo la comunicazione ufficiale del Prefetto della Segreteria per l’Economia, il gesuita Juan Antonio Guerrero Alves. La Santa Sede ne ha spesi 300 milioni, e il resto dell’obolo è bloccato, di fatto, in palazzi dalla proprietà incerta e di cui non si conosce la possibilità di vendita.

 Considerato che il Vaticano è lo Stato che più al mondo, vivendo di solo turismo, ha sofferto la crisi da Covid; be’, il fatto che la raccolta straordinaria dell’obolo oggi renda solo 44 milioni e si assottigli sempre più (la Germania, per esempio offre sempre meno alla casse papali, non a torto) potrebbe costringere il Papa a metter mano ad altri gioielli di famiglia. E tutto per il danno reputazionale dovuto non solo al palazzotto londinese; ma anche ad investimenti sbagliati e bizzarri. Come gli affari con Lapo Elkann o il finanziamento del film su Elton John Rocketman, 1 milione di euro, e al diavolo il punto etico su omosessualità e diritti civili…), i fondi a Malta come Centurion (3 milioni nella produzione del film Men in Black: International. Un flop al botteghino), il salvataggio di una università in Giordania. Il Vaticano, insomma, si è profuso in una fervente attività economica per tramite uno sconosciuto finanziere che passava di lì per caso, tal Gianluigi Torzi che per anni ha tenuto sotto scacco, attraverso un veicolo finanziario lussemburghese, gli addetti della tesoreria papale. Senza, ovviamente, che Papa Francesco ne fosse a conoscenza.

 Ma la miccia che ha fatto esplodere lo scandalo è proprio il palazzotto di Sloane Avenue che il Vaticano ha comprato tre volte. Gerevini e Massaro svelano retroscena inediti come gli scambi epistolari tra i magistrati vaticani e i giudici inglesi (scrivono i magistrati di Sua Maestà: “Se Perlasca e Tirabassi erano cospiratori, come potete dire che hanno agito in buona fede nelle trattativa?” “Perché avere pagato?”, “Perché se eravate di fronte ad truffatore gli è stato procurato un incontro di quel livello?” riferito all’incontro di Torzi col Papa). Si scopre l’ingenuità dello stesso segretario di Stato vaticano Parolin che benedice le operazioni fidandosi dei suoi senza analisi preventiva di documenti (che spesso non ci sono), prima dell’arrivo del nuovo, sospettoso, addetto all’ Obolo, l’arcivescovo venezuelano Edgar Pena Parra che comincerà a porsi domande.

In un capitolo involontariamente ironico viene descritto perfino, dopo la vendita del Palazzo e l’euforia del gruppo di negoziatori, un pranzo di festeggiamento tra il venditore dell’immobile Mincione e il compratore per la Santa Sede Torzi, in un ristorante romano dal nome fatale: I due ladroni. Da questa sarabanda di business spregiudicati, di monsignori perlomeno irresponsabili, di funzionari incapaci se non corrotti ne esce un ritratto del cuore malato dell’economia pontificia. E il suddetto groviglio vischioso dei bilanci vaticani trova conferma nel rapporto recnetissimo di Moneyval sull’adeguamento del Vaticano alle norme antiriciclaggio. Laddove, a fronte di un buon giudizio sull’azione antiriciclaggio esterna, si riscontrano buchi e difficoltà sul controllo “insider”, quello interno; il rapporto fa notare che la Santa Sede non solo lì non ha controlli, ma mancano perfino i controllori ossia i magistrati permanentemente preposti. Il Presidente dell’ASIF (l’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria) Carmelo Barbagallo, che ha guidato la delegazione vaticana durante il processo di valutazione commenta dicendo, in pratica: è andata bene, ma possiamo fare meglio. E su questo, dai tempi dello Ior, non c’è alcun dubbio. Il problema sarà spiegare ai fedeli che le loro offerte sono andate sperperate, tra gli altri investimenti, in un anonimo edificio inglese pagato quanto la reggia di Versailles…

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