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Strage di Bologna, quando i progressisti potevano avere dubbi

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Daniele Dell'Orco
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Le scuse che Francesco Cossiga, da Capo dello Stato, pose nel 1991 all’Msi per quella verità «non vera» frettolosamente confezionata sulla strage «fascista» di Bologna, per la sinistra di oggi rappresentano l’origine di tutti mali circa il dibattito sulla bomba alla stazione e sulla «negazione» della colpevolezza degli ex Nar Francesca Mambro, Giusva Fioravanti, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini. Un dibattito che, come dimostrano gli strali scagliati contro il premier Giorgia Meloni due giorni fa (nel suo post commemorativo aveva parlato di un colpo sferrato allo Stato dal «terrorismo» senza specificare la matrice neofascista), per loro non dovrebbe proprio esistere.

O meglio, non dovrebbe esistere più. Perché le parole di Cossiga all’epoca non sguinzagliarono certo chissà quali falchi della destra (gli “innocentisti” tali erano e tali sono rimasti), non inaugurarono una inesistente stagione di pericolo fascista, ma al contrario contribuirono ad arricchire un certo clima di confronto bipartis. Con una certa vena malinconica, Mattia Feltri sulla Stampa ricordava ieri i tempi in cui, a metà degli anni ’90, venivano pubblicati per editori di sinistra volumi come “Rebibbia Rhapsody”, scritto a quattro mani da Fioravanti nientemeno che con un artista di Lotta Continua: Pablo Echauren.

CLIMA CULTURALE
Erano in realtà operazioni culturali figlie dello stesso clima che portò alla nascita del noto comitato “E se fossero innocenti?”, composto nel 1994 da avvocati, filosofi, giornalisti, politici e membri di associazioni quasi esclusivamente di sinistra. Si pensi, tra i tanti, a Sandro Curzi, direttore di Liberazione, quotidiano di Rifondazione Comunista, o ad Andrea Colombo, penna prestigiosa del Manifesto. E ancora a Luigi Manconi, Franca Chiaromonte, Ersilia Salvato, ma pure al fotografo Oliviero Toscani e alla regista Liliana Cavani. Non mancò certo la partecipazione dei politici, specie comunisti e radicali. Luigi Cipriani, deputato di Democrazia Proletaria, già nel 1990 disse che dietro la strage ci fossero i servizi occidentali e le strutture segrete, e fermarsi a dire che gli autori furono i Nar era il vero depistaggio: «Su quella lapide va scritto “strage di stato!”».

Tra gli intellettuali, anche Rossanda Rossanda non perse mai occasione per ribadire le proprie convinzioni innocentiste e persino importanti ex direttori di quotidiani di massima diffusione come il Corriere della Sera o l’Unità, come Paolo Mieli e Furio Colombo, non fecero mancare osservazioni critiche in ordine alle sentenze di condanna di Fioravanti & Co. Ennio Remondino, figura storica della Rai, altro profilo notoriamente schierato a sinistra, condusse una famosa inchiesta relativa al falso tumore che nel 1981 garantì la scarcerazione del teste chiave Stefano Sparti, in merito alla sparizione della cartella clinica di quest’ultimo andata distrutta in un incendio divampato, proprio poco tempo prima, all’interno dell’Ospedale San Camillo di Roma. Un episodio di cui Remondino ha poi riferito addirittura davanti Sandro Provvisionato, giornalista di punta di Canale 5 proveniente ancora una volta da sinistra, definì «fragile» il movente della condanna e «evanescenti» le prove.

Insomma, il decennio tra la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda era caratterizzato da una vena di dibattito che, logicamente entro certi limiti, ammetteva molti meno tabù di quanto si possa immaginare. Non certo perché si volesse provare a scagionare Fioravanti e Mambro, ergastolani a prescindere dalle bombe alla stazione, o sminuire la portata del fenomeno dell’eversione nera. Ma semplicemente perché erano tempi in cui, di fronte alla memoria di 85 persone innocenti, il tornaconto politico veniva messo da parte. Nel 2023, insomma, abbiamo scoperto di essere indietro di quarant’anni.

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