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Tuta alare, follia fatale: un'estate di morte, l'ultimo dramma a Belluno

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Giordano Tedoldi
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Potremmo sbagliare per difetto, ma quest’estate sono morti cinque base jumper, gettandosi nel vuoto con il solo supporto delle loro tute alari. L’ultimo, mercoledì mattina, un inglese di 33 anni (il nome non è stato diffuso), in Valle di San Lucano, a Taibon Agordino, in provincia di Belluno nei pressi del Gruppo del Civetta.

Era in compagnia di alcuni amici, con i quali, dopo il lancio, avrebbe dovuto incontrarsi nel rifugio Capanna Trieste, ma i compagni, non vedendolo arrivare, hanno chiamato il 118. L’equipaggio dell’elisoccorso, dopo avere visionato i filmati della loro GoPro, ha individuato il luogo dell’impatto a circa 200 metri più in basso dal punto di lancio; ottanta metri più giù, seguendo le tracce di alcuni oggetti appartenuti al jumper, è stato trovato il suo corpo esanime sopra le rocce.

 

 

 

Il 30 agosto, in Val d’Aosta, era morto il romano Tommaso Funicelli, base jumper di 34 anni. Si era lanciato con la tuta alare dalla cima di Plan Cou, a circa 2.100 metri di quota. La vela della tuta alare si era aperta regolarmente, eppure, per cause non ancora accertate, non è riuscita a frenare la sua rovinosa caduta: una parte di vela visibile tra gli alberi e la parete rocciosa ha consentito di individuare il corpo, a circa 1.300 metri di quota. Il 10 agosto, ancora nel bellunese, ha perso la vita Ludovico Vanoli di 41 anni. Aveva moglie e due figli piccoli, amava anche il paracadutismo e aveva una grande passione per lo snowboard. Si era lanciato dal Castello delle Nevere, alle spalle della Moiazza, e doveva atterrare a Capanna Trieste, ma non è mai arrivato.

Si è ipotizzato un malfunzionamento della tuta alare, o del paracadute. Il 6 agosto, in Val Badia, è deceduto Raian Kamel, originario di Breno e residente a Cinisello Balsamo; l’incidente è avvenuto dopo un lancio avvenuto dal Piz da Lech, una via ferrata di media difficoltà che si trova nelle Dolomiti sul Gruppo del Sella. Come sempre in queste tragedie, l’uomo, 36 anni, non è stato visto atterrare nel punto previsto, un prato in località Colfosco. Si era schiantato in un canalone ghiacciato a 2400 metri di quota, il cadavere è stato recuperato dall’elisoccorso. Non era la prima volta che si lanciava da quella cima.

Ancora, procedendo in questo macabro elenco, il 13 luglio è morto, in Norvegia, il base jumper Matteo Mazza, 37 anni. Anche lì, nonostante l’esperienza di decine di salti, stavolta qualcosa è andato storto, e i soccorsi non hanno potuto fare altro che constatare il decesso dell’uomo. Uscendo dai confini estivi, ad aprile una base jumper canadese era morta in Trentino, sul Becco dell’Aquila, un luogo noto agli appassionati di volo e sport estremi di tutto il mondo, ma che si è guadagnato il macabro record di trentatré morti negli ultimi vent’anni, e dunque, più che noto, ormai dovremmo definirlo famigerato, come lo sono certi luoghi, dai nomi sinistri, nei racconti dell’orrore: ci viene in mente lo Scoglio del Diavolo in una storia di H.P. Lovecraft.

Esageriamo ad accostare il base jumping alla letteratura horror? Sicuramente è un po’ forte, ma il conteggio impressionante delle vittime dovrebbe cominciare a far riflettere tutti gli entusiasti di questo particolare sport estremo, che sembra veramente, dopotutto, pretendere troppo dalle capacità umane. Che abbia un suo fascino peculiare, nessun dubbio: in poche parole, dà l’illusione di volare, di farsi uccelli, magari aquile, che, come canta la canzone di Battiato, non volano a stormi. Dunque la realizzazione di un desiderio inveterato della nostra specie: superare i propri limiti, godere di quella visione amplissima che si gode dalle alte quote, la sensazione di una libertà che, noi, poveri bipedi, normalmente possiamo solo immaginare o, appunto, sognare (nel senso proprio della parola).

L’unico accessorio è la tuta alare, questo equipaggiamento che dovrebbe trasformare il terragno essere umano in un volatile, ma che, naturalmente, è ben lungi dal poterlo fare davvero: è soltanto un debole, fragilissimo espediente, che, evidentemente, comporta troppi rischi. Il miraggio di Icaro continua ad abbagliarci, piuttosto che ad ammaestrarci. La presunzione è sempre quella: trovare il modo di costruire quelle ali che, avvinghiate, incorporate a noi stessi, il sole non scioglierà, anzi, che nulla distruggerà. Ancora oggi, ali del genere non esistono; è molto probabile che non esisteranno mai.

 

 

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