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Treviso? I bambini in moschea non aiutano il dialogo

Il caso della provincia di Treviso e quanto invece accadeva in passato, quando non si facevano tutte quelle menate che ci siamo inventati negli ultimi anni
di Gianluigi Paragone lunedì 5 maggio 2025

3' di lettura

Quando andavo a scuola elementare e veniva il vecchio don Mario Cortellezzi per insegnare religione ci invitava a pregare perla pace (non c’è bisogno delle guerre per chiedere al Signore di farci vivere in pace) e lo faceva introducendoci al Padre Nostro e all’Ave Maria; dopo di che si chiedeva al Padreterno di donare a tutti - ripeto: tutti - la pace. Lo facevamo a scuola, perché ai miei tempi non si facevano tutte quelle menate che ci siamo inventati negli ultimi anni dandola vinta ai comunisti, progressisti, riformisti: c’era l’ora di religione, c’era il crocifisso e a ridosso del 25 dicembre nessuno si sognava di cambiare il nome alla feste di Natale con la festa d’inverno. A Pasqua uguale. Quel vecchio brontolone del don Mario non sentiva il bisogno di portarci in una moschea a pregare per la pace.
Quando non era nella sua chiesa e veniva appunto a scuola a insegnare l’ora di religione, teneva distinto il catechismo con la conoscenza delle religioni praticate nel mondo. E noi, che a quel tempo studiavamo pure la geografia con il mappamondo e le interrogazioni si facevano con le “cartine mute”, capivamo e apprezzavamo queste informazioni.

Adesso però il mondo è cambiato, mi direte. Infatti per effetto delle migrazioni abbiamo tanti bambini e adolescenti di fede islamica o di altre fedi. Le quali devono convivere con la nostra impronta identitaria. Che è cristiana. Per rispettare le altre religioni, in una scuola paritaria della provincia di Treviso, hanno portato i bimbi in gita in una moschea e li hanno invitati a fare come fa l’imam cioé inginocchiarsi in moschea. Domando: siamo sicuri che i bambini islamici della stessa scuola possano essere portati in chiesa e invitati a inginocchiarsi davanti all’altare? O succede il finimondo? Lo ammetto, quell’immagine dei bambini della materna paritaria in ginocchio nella moschea non ha nulla di dialogante ed è lontana da un ecumenismo maturo. Quei bambini sono “prigionieri” di un disegno politico meschino e arrendevole. Una iniziativa ideologica, di una ideologia dove l’importante è farsi vedere che si è “progressisti”. E trovo ancor più retoricamente involuto il riferimento a Papa Francesco. Purtroppo siamo arrivati laddove temevo si arrivasse con questa narrazione della “Chiesa di Papa Francesco” come se Bergoglio fosse il capo di un qualcosa di “suo” e non il successore di Pietro che evangelizza nella Parola nuova.

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Siamo arrivati a un altro passo di un percorso distorto, dove le radici culturali non sono affermate ma sono messe “a disposizione” della crescita. Come a dire: ti raccontiamo e ti facciamo provare un po’ di fedi, un po’ di pratiche e poi scegli tu che fare. Il mio vecchio don Mario insegnava e ci metteva nel solco di una identità della quale siamo imbevuti e circondati, non diventava l’offerente di una proposta alla pari di altre. È proprio con questo atteggiamento “a sottrazione” che la confusione genera quel relativismo culturale per cui non sono cristiano ma sono un figlio del mondo; non mi riconosco in quei tratti della fede impressi nell’arte, nella letteratura, nella musica perchè mi sento attratto dall’Islam o dagli Arancioni come se tutto fosse una moda.

Il confronto e il dialogo hanno un senso quando tu sai chi sei. Se si trova “normale” andare in gita in una moschea perché ci sono tanti bambini musulmani significa che, per paradosso, quando la comunità sarà a maggioranza di uomini e donne islamici allora ci si uniformerà alla loro identità. La Lega ha commentato quell’immagine della scolaresca in ginocchio con la parola “agghiacciante”. Ne userei un’altra: sconfortante. È sconfortante pensare che degli adulti abbiano deciso di abusare dei bambini in nome di un loro credo politico, di una loro convinzione. Quella scolaresca in ginocchio nella moschea è una scolaresca di piccoli prigionieri. Prigionieri del nostro vuoto identitario.

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