Prima messa da papa per Robert Francis Prevost, e nuove conferme che Leone XIV non è Francesco, ma una figura assai più complessa, con una visione diversa del ministero petrino. In Leone XIV c’è qualcosa della sapienza dottrinaria e dell’umiltà di Benedetto XVI e qualcosa della forza di Giovanni Paolo II, qualità che potrebbero far lasciare un’impronta importante al suo papato. Se è vero che l’omelia della messa pro Ecclesia celebrata ieri può essere considerata una parte della sua “dichiarazione programmatica” (altro lo sentiremo il 18 maggio, nella messa di intronizzazione), la Chiesa sembra camminare ora su buone gambe, vedremo se forti abbastanza da farle superare le sfide tremende che ha davanti.
Intanto, le parole di Prevost mostrano una cultura teologica e una visione del sacerdozio alle quali i fedeli non erano abituati. Le parole finali della sua predica sono rivelatrici. Il pontefice nato a Chicago cita la lettera che sant’Ignazio di Antiochia scrisse mentre era condotto a Roma per essere martirizzato. Il padre della Chiesa supplicava i cristiani romani affinché non intervenissero per salvarlo e Leone XIV cita la sua frase più importante: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo». Spiega che sant’Ignazio si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo, ma «le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato».
Il sacerdote che si riduce sino a scomparire è l’antitesi di ogni protagonismo con la tonaca, e dunque una bella novità. Veniamo da una stagione in cui si sono visti pastori che - magari cercando l’applauso del mondo e dei media – hanno oscurato colui che avrebbero dovuto raccontare. È quello che Gesù aveva detto a Marta, sorella di Lazzaro: «Porro unum est necessarium» (Luca 10,42), una sola è la cosa di cui c’è bisogno, ed è Cristo, la salvezza. Frase cara a sant’Agostino, il mistico di cui Leone XIV si è subito definito «figlio». Un insegnamento agli antipodi dei discorsi mondani, sociologici o influenzati dalle ideologie, che il papa impartisce pure a se stesso: «Dico questo prima di tutto per me, come successore di Pietro».
Nella sua prima messa Leone XIV lancia almeno un altro segnale importante: il mondo dei battezzati è terra di missione. «Non mancano», dice ai cardinali, «i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere in un ateismo di fatto». Un Cristo versione new age, insomma, una sorta di guru della mindfulness, privato del suo messaggio rivoluzionario e comodo da accettare.
Anziché concentrarsi sugli ultimi (avrà occasione per farlo), il pontefice giunto dal di là dell’Atlantico appare preoccupato innanzitutto di cosa resta del messaggio cristiano in Europa e nord America. Rievoca, dal Vangelo di Matteo, la «bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi», ma anche «sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà». È, in sostanza, il mondo delle élite, «che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso». E che non esiterà a eliminarlo «quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama».
C’è poi il mondo «della gente comune», quelli che considerano il Nazareno «uno che ha coraggio, che parla bene e dice cose giuste» e dunque lo seguono, ma solo «finché possono farlo senza troppi rischi». Infatti «nel momento del pericolo anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi». Esempi attuali, commenta il papa, perché «oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti», e ad essa si preferiscono «altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere». Ambienti nei quali «non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito».
Eppure, chiosa, proprio questi «sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre». La «nostra società», appunto. È dell’Occidente che Prevost parla. Così mostra di avere chiara la diagnosi del male e pone le basi per un’opera di ri-evangelizzazione difficilissima, ma necessaria alla sopravvivenza della Chiesa.