Una volta al Giro d’Italia l’asfalto si violava con la vernice per incitare gli assi del ciclismo. Bastavano i nomi dei grandi campioni con un “forza” e con un “dài”, esortazione morale per premere sui pedali e sudare di più e vincere. Oggi, in un’epoca in cui come diceva Ennio Flaiano anche il cretino è specializzato, qualcuno con master e bacio accademico dell’idiozia ha pensato bene (si fa per dire) di liberare la fantasia a colpi di bomboletta spray inneggiando a Josip Broz detto Tito e a Gaza libera. Un affettuoso richiamo a Nova Gorica al galantuomo della stella rossa in fronte e delle foibe nella coscienza, come si trattasse di un bonario paparino al quale rendere omaggio per perpetuarne la memoria.
Per rassicurare il nostalgico writer, la memoria di Tito è ben custodita nelle pagine di storia, e quello è un giudizio che non si può né edulcorare né osannare avvolgendosi nella bandiera della Jugoslavia d’antan. Ora immaginiamo per assurdo – ma a qualche idiota nostrano potrebbe anche venire in mente – che a Predappio sull’asfalto della corsa rosa spuntasse fuori un “Benito vinci per noi”, e che pandemonio ne verrebbe fuori. Niente a che vedere con “zio Joe sei tutti noi” per il rimpianto nei confronti di baffone Stalin, che come tutti i dittatori accarezzava in pubblico i bambini per dare di sé un’immagine rassicurante e familiare. Il “Naš Tito” sarà pure cosa loro, ma non è certo cosa nostra, perché quel nome cela crimini di guerra che fanno raccapricciare gli scampati e i familiari delle vittime, tutti italiani, che neppure l’ipocrisia politica dell’Italia del secondo dopoguerra è riuscita ad addomesticare.
Che lo sport sia abbondantemente inquinato dalla politica più retriva non è una scoperta, a partire dalla militanza di alcune celebrate curve calcistiche e arrivare alla faciloneria con cui si intonano motivetti imbarazzanti con testi ancor più imbarazzanti. Il ciclismo che celebrava la fatica, il sudore e l’impegno del campagnolo diventato eroe sulla sella del cavallo metallico felice di «essere arrivato uno», e quei valori che brutti casi di doping hanno sporcato, si pensava che una qualche forma di umile nobiltà l’avesse ancora conservata, almeno per quanto riguardava le tifoserie. E invece no. Pure al Giro d’Italia le bandiere della Palestina, gli slogan in inglese su Gaza, la corsa a farsi inquadrare e a cavalcare l’onda modaiola di un (dis)impegno (in)civile (a)critico, sono spuntati per politicizzare la competizione sportiva.
Non perché la società sia a compartimenti stagni, ma perché lo sono i cervelli che reagiscono a riflessi pavloviani, che sono appunto indotti. Bastano una bomboletta da tre euro e una bandiera da cinque per dimostrare che in questo Paese di bianchi e neri e di guelfi e ghibellini è facile mettersi a favore di vento ed è ancora più facile trovare sponde compiacenti con riprese mirate e amplificazioni mediatiche. Per épater le bourgeois ci vuole poco, ma a senso unico. Il cartello con divieto di ingresso agli israeliani diventa una ragazzata, l’inno a Tito un innocuo nostalgismo e la bandiera quadricolore o l’inno a Gaza free il modo di mettersi in pace con gli altri che la pensano sempre e solo “giusta”. Mettendo in ibernazione la dantesca «virtute et conoscenza» che ci consente in quanto uomini di distinguerci dai bruti. Soprattutto se brutti, sporchi e cattivi.