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Giro d'Italia, dai pro Tito ai pro Gaza: si scatenano i fenomeni

Una volta l’asfalto si violava con la vernice per incitare gli assi del ciclismo, oggi qualcuno ha pensato bene di liberare la fantasia a colpi di bomboletta spray
di Marco Patricelli lunedì 26 maggio 2025

3' di lettura

Una volta al Giro d’Italia l’asfalto si violava con la vernice per incitare gli assi del ciclismo. Bastavano i nomi dei grandi campioni con un “forza” e con un “dài”, esortazione morale per premere sui pedali e sudare di più e vincere. Oggi, in un’epoca in cui come diceva Ennio Flaiano anche il cretino è specializzato, qualcuno con master e bacio accademico dell’idiozia ha pensato bene (si fa per dire) di liberare la fantasia a colpi di bomboletta spray inneggiando a Josip Broz detto Tito e a Gaza libera. Un affettuoso richiamo a Nova Gorica al galantuomo della stella rossa in fronte e delle foibe nella coscienza, come si trattasse di un bonario paparino al quale rendere omaggio per perpetuarne la memoria.

Per rassicurare il nostalgico writer, la memoria di Tito è ben custodita nelle pagine di storia, e quello è un giudizio che non si può né edulcorare né osannare avvolgendosi nella bandiera della Jugoslavia d’antan. Ora immaginiamo per assurdo – ma a qualche idiota nostrano potrebbe anche venire in mente – che a Predappio sull’asfalto della corsa rosa spuntasse fuori un “Benito vinci per noi”, e che pandemonio ne verrebbe fuori. Niente a che vedere con “zio Joe sei tutti noi” per il rimpianto nei confronti di baffone Stalin, che come tutti i dittatori accarezzava in pubblico i bambini per dare di sé un’immagine rassicurante e familiare. Il “Naš Tito” sarà pure cosa loro, ma non è certo cosa nostra, perché quel nome cela crimini di guerra che fanno raccapricciare gli scampati e i familiari delle vittime, tutti italiani, che neppure l’ipocrisia politica dell’Italia del secondo dopoguerra è riuscita ad addomesticare.

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Che lo sport sia abbondantemente inquinato dalla politica più retriva non è una scoperta, a partire dalla militanza di alcune celebrate curve calcistiche e arrivare alla faciloneria con cui si intonano motivetti imbarazzanti con testi ancor più imbarazzanti. Il ciclismo che celebrava la fatica, il sudore e l’impegno del campagnolo diventato eroe sulla sella del cavallo metallico felice di «essere arrivato uno», e quei valori che brutti casi di doping hanno sporcato, si pensava che una qualche forma di umile nobiltà l’avesse ancora conservata, almeno per quanto riguardava le tifoserie. E invece no. Pure al Giro d’Italia le bandiere della Palestina, gli slogan in inglese su Gaza, la corsa a farsi inquadrare e a cavalcare l’onda modaiola di un (dis)impegno (in)civile (a)critico, sono spuntati per politicizzare la competizione sportiva.

Non perché la società sia a compartimenti stagni, ma perché lo sono i cervelli che reagiscono a riflessi pavloviani, che sono appunto indotti. Bastano una bomboletta da tre euro e una bandiera da cinque per dimostrare che in questo Paese di bianchi e neri e di guelfi e ghibellini è facile mettersi a favore di vento ed è ancora più facile trovare sponde compiacenti con riprese mirate e amplificazioni mediatiche. Per épater le bourgeois ci vuole poco, ma a senso unico. Il cartello con divieto di ingresso agli israeliani diventa una ragazzata, l’inno a Tito un innocuo nostalgismo e la bandiera quadricolore o l’inno a Gaza free il modo di mettersi in pace con gli altri che la pensano sempre e solo “giusta”. Mettendo in ibernazione la dantesca «virtute et conoscenza» che ci consente in quanto uomini di distinguerci dai bruti. Soprattutto se brutti, sporchi e cattivi. 

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