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Compassione, l'ingrediente base delle relazioni sincere

La parola, oggi rara ma con radici antiche, viene dal latino tardo compassio (dal greco pathos, “sofferenza”), che significa letteralmente “soffrire insieme”
di Steno Sari lunedì 27 ottobre 2025

3' di lettura

Dopo aver parlato di empatia, alcuni lettori mi hanno chiesto di riflettere sulla compassione. Una parola oggi rara, ma con radici antiche: viene dal latino tardo compassio (dal greco pathos, “sofferenza”), che significa letteralmente “soffrire insieme”. Non si tratta solo di sentire il dolore dell’altro, ma di condividerlo interiormente, lasciandosi toccare fino a muoversi per alleviarlo.

L’empatia è comprensione e ascolto: ci permette di percepire l’altro e di riconoscere le sue emozioni. Ma se resta solo percezione, si sostanzia solo in un’esperienza soggettiva interna e rischia di diventare sterile. La compassione va oltre, fa compagnia alla sofferenza altrui. Come si legge nei Vangeli, la compassione che Gesù provava per gli altri è una commozione viscerale, profonda, autentica. Sia l’empatia che la compassione possono portare entrambe a comportamenti altruistici, cioè quelle azioni volontarie in favore del bene altrui. Nei Vangeli l’atto di far del bene è detto misericordia, menzionata anche nella parabola del buon samaritano. Empatia, compassione e misericordia sono tre tappe dello stesso percorso: la prima ci apre all’altro, la seconda ci fa vibrare, smuove i nostri più profondi sentimenti, la terza ci spinge ad agire per il suo bene. L’una è il seme, l’altra il fiore, la terza il frutto. Separate rischiano di spegnersi; unite trasformano i rapporti e rendono la società più umana.

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Nel quotidiano la compassione si manifesta nelle piccole cose: nell’ascoltare davvero un familiare in crisi, nel dare una mano a un vicino in difficoltà, nel mettersi al servizio di chi ha bisogno senza aspettarsi nulla in cambio. È discreta, mai pietistica; si accompagna al rispetto e alla presenza silenziosa. Il rischio opposto è quello di un “buonismo” compiaciuto, che più che alleviare il dolore serve a sentirsi migliori. Chi soffre, però, non ha bisogno di chi lo guarda dall’alto, ma di chi si mette accanto.

Eppure, oggi la compassione sembra quasi una debolezza. Viviamo in tempi frenetici, dove tutto si misura in termini di prestazione e successo. Il dolore degli altri disturba, ci ricorda la nostra fragilità, e così si preferisce distogliere lo sguardo. L’individualismo moderno ha reso l’uomo più autonomo, ma anche più solo, spesso incapace di “sentire con”. Non è un caso che si parli di “compassion fatigue”, quella stanchezza emotiva che svuota e logora e che colpisce chi si espone costantemente al dolore altrui senza trovare equilibrio o sostegno interiore.

Eppure, proprio la compassione quella vera, equilibrata e consapevole resta la radice delle relazioni autentiche. Chiede tempo, attenzione, presenza: tre beni preziosi in un mondo che misura tutto in risultati. Eppure è solo scegliendo il cuore invece del calcolo, la vicinanza invece dell’indifferenza, che riscopriamo il senso profondo dell’umanità. Per quanto Kant desse alla parola “umanità” un senso un po’ diverso da quello che ha comunemente oggi, potremmo comunque far nostra la sua massima: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. La compassione, in fondo, nasce proprio da qui: riconoscere l’altro nella sua dignità e agire per il suo bene.

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