Chi decide di suicidarsi raramente lo fa in preda a un raptus violento. Sicuramente non è stato così per le gemelle Kessler, che fra l’altro la loro decisione di morire insieme l’avevano fatta trapelare in varie occasioni. Se dietro la decisione del suicida c’è quindi un ragionamento, bisognerebbe capire quale esso sia, cioè cosa rende insopportabile per lui continuare a vivere.
Ovviamente ogni caso è una storia a sé, in un ampio spettro che giunge fino all’eutanasia medica che è generata da terzi che si arrogano il diritto di decidere se far morire quando qualcuno non è più in grado di farlo da solo, interpretando una volontà manifestata in altre circostanze e momenti della vita. Tutti i casi possono però ricondursi a un quid comune: per un qualsiasi motivo il continuare a vivere viene ritenuto dal suicida insopportabile. Anche solo in idea, come sembra fosse per le gemelle Kessler che ritenevano impossibile che una di loro due sopravvivesse all’altra. Ma non è forse la vita stessa, considerata da un certo punto di vista, ad essere insopportabile?
Sileno, eroe della mitologia greca, grida al re Mida che per ogni uomo sarebbe stato meglio non esser nato e che, essendolo, è meglio morire il prima possibile. Eppure, lo sconforto che nasce dalla nostra finitezza dura solo un attimo: in ogni giorno e in ogni momento noi decidiamo, anche inconsciamente, di vivere, diciamo “sì alla vita” come avrebbe detto Nietzsche.
Perché? Per la speranza in una vita ulteriore o anche per qualcos’altro? Il cristianesimo, come è noto, ha ritenuto il suicidio, in qualsiasi forma esso fosse praticato, un peccato: la vita è sacra perché non ci appartiene, ci è stata donata da Dio e a lui dobbiamo riconsegnarla. L’età moderna, nella sua opera dissacratrice del sacro e della mitologia, senza accorgersi di soggiacere anch’essa a miti, introduce un concetto molto scivoloso: quello della dignità umana. Una vita è tale quando è una vita “degna” di esser vissuta.
Ma in base a quali criteri io stabilisco la dignità di alcunché? Sono una monade senza porte e finestre che decide nel vuoto di coscienza o sono influenzato dai miti, appunto, o anche dalle idee e delle credenze del mio tempo, dai luoghi comuni?
Già in questa situazione i dubbi che sorgono sono non pochi. Essi però diventano tantissimi se c’è un’entità terza, cioè lo Stato, che inizia a legiferare e a vietare o a permettere. Situazione che crea non pochi cortocircuiti e contraddizioni mentali e morali, come abbiamo visto in più occasioni negli anni passati. La contraddizione più grande però a me pare quella che lo Stato moderno odi diritto, nato per garantire e proteggere la vita (Hobbes), si faccia dispensatore di morte, decretando chi è lecito lasciar morire e chino.
La vita va invece protetta sempre. Perché? Perché è libertà: sono libero in quanto vivo e vivo per esercitare la mia libertà. Di fronte al suicidio ci troviamo invece nella condizione di chi decide di non essere più libero, sceglie di non poter più scegliere, rende possibile l’impossibilità di ogni scelta possibile (Heidegger).
Senza entrare nella complessità delle coscienze individuali, e rispettando la vita che è stata anche del suicida e la sua scelta estrema, a me sembra che ci troviamo qui di fronte a un movimento insano, a un deresponsabilizzarsi rispetto a quella sorte (ammettiamo pure tragica) che ci è toccata con l’esser nati. È come se la libertà, che è la nostra caratteristica più propria e più apprezzabile, volesse negare sé stessa, rinunciando ad esercitarsi. Quello che è più preoccupante è il diffondersi nelle nostre società di una cultura della morte che banalizza tutto e ci fa apparire “normale” anche quello a ben rifletterci non lo è affatto.