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Repubblica, perché la crisi è anche culturale

Dietro la polemica c'è l'incapacità di rinnovarsi. L’impressione è che più che dai nuovi padroni chi protesta voglia tutelarsi dai mutamenti della storia
di Corrado Ocone lunedì 15 dicembre 2025

3' di lettura

Diciamo la verità: la richiesta di un intervento dello Stato sul mercato per salvare la linea editoriale, fra l’altro fortemente e fieramente orientata, di un giornale è qualcosa a cui non ci era mai capitato di assistere. Di interventi per salvare i posti di lavoro sì, ma del tipo in questione proprio no. Eppure, a ben vedere, è questa la richiesta che viene fatta in questi giorni da molti esponenti di sinistra, nonché da tutto quel “piccolo mondo antico”, in declino ma sicuramente ancora molto influente, che attorno al giornale-partito di Repubblica gira. Lo ha messo nero su bianco ieri, in un editoriale pensato e non banale, l’ex direttore del quotidiano, Ezio Mauro. Il quale, dopo aver osservato che esiste una “natura specifica del prodotto-giornale”, ha scritto che quando “l’editore cede l’azienda va individuata una soluzione coerente con quel vincolo culturale” che lega il giornale al lettore e che è la sua “natura, o anima, o carattere”. Ma, di grazia, quale prodotto commerciale non è scelto dal consumatore o fruitore per la sua specificità o qualità? Ovviamente, l’editore anche fa le sue scelte, valuta cioè se gli conviene perdere quello zoccolo duro di lettori per acquisirne eventualmente altri o no, se soddisfare con l’acquisto altre esigenze oltre a quelle commerciali e quali. È lui che investe i soldi ed è lui che deve poter essere libero di inseguire i suoi interessi legittimi. Certo, deve essere attento alle conseguenze che le sue scelte possono comportare, ma non gli si può vietare di inseguire il proprio utile. L’editore è un imprenditore, non un benefattore o un mecenate. Non suoni irriverente il paragone, ma se un nuovo (o lo stesso) proprietario della Nutella decidesse di cambiarne il gusto deve mettere in carico i rischi che il suo azzardo comporta ma non può essere limitato dallo Stato se non per il rispetto delle leggi.

La libertà d’impresa e di commercio (vendita e acquisto), in uno Stato di diritto, non è meno importante della libertà d’espressione e di stampa. Certo, oggi l’editore puro non esiste quasi più, e possiamo rammaricarcene. Ma ciò per un motivo molto semplice: i giornali di carta non danno più quei margini di guadagno che davano un tempo. L’indipendenza è certamente un valore prioritario e i giornalisti fanno bene a difenderla, ma la libertà non è una concessione per grazia ricevuta. La libertà si conquista giorno per giorno sul campo e ogni giorno deve crearsi i suoi strumenti, con realismo e con inventiva insieme. Quanto allo Stato, esso, in linea teorica, dovrebbe limitarsi solo a creare le condizioni perché questa conquista di spazi di libertà sia possibile, assicurandosi che ci sia cioè effettivo pluralismo ma anche dinamismo.

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Il pluralismo che vuole affermarsi chiedendo garanzie per privilegi acquisiti, casomai in altri contesti o periodi storici, non è veramente tale, almeno agli occhi di un liberale. Il giornale ideale è quello che riesce a far convergere attorno al suo progetto chi lo fa e chi ci mette i soldi, cosa che Repubblica ha saputo fare alla grande negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso quando ha intercettato nuove esigenze e nuove sensibilità maturate in una ampia fetta della società italiana e che i giornali tradizionali, a cominciare a sinistra dalla vecchia Unità, non riuscivano più a rappresentare. La crisi di Repubblica è prima di tutto la crisi di quel progetto culturale e di quel mondo, nonché dell’incapacità di rinnovarsi. L’impressione è che più che dai nuovi padroni chi protesta voglia tutelarsi dai mutamenti della storia, che non si può fermare e a cui, per dirla con Labriola, non si può mettere le braghe.

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