Se Ludwig van Beethoven avesse aggiunto un sonoro “Ja!” alla fine dell’Inno alla gioia di Friedrich Schiller, la Germania gliel’avrebbe lasciato come tocco d’artista e l’Europa che ha adottato ufficialmente il quarto movimento della Nona Sinfonia probabilmente pure. È altresì vero che Michele Novaro non era Beethoven quando musicò il Canto degli italiani, ed è altrettanto certo che Goffredo Mameli non fosse Schiller. Il compositore, che al Caffè Calosso di Torino si accese di passione nel leggere i versi del giovane poeta patriota datati 10 novembre 1847 e si mise subito al pianoforte per farne un inno risorgimentale, aggiunse quella sillaba come non casuale ritocco, probabilmente per farne l’affermazione della tonalità che all’ultima battuta appariva poco netta e chiara. Un “trucco” musicale uscito fuori dalla penna, perché quel “Sì!” risuona all’ottava superiore del mi bemolle della tonalità conclusiva, che altrimenti è quasi improvvisa dopo una sola e semplice battuta in si bemolle. Senza entrare in inutili tecnicismi, quell’accorno la bocca per cantare i versi di Mameli su melodia di Novaro neanche davanti al trapano del dentista.
Un embargo, tacito è il caso di dirlo, arrivato agli anni ’90, quando venne sollevata la questione se fosse ignoranza oppure disinteresse, tanto che un quotidiano provocatoriamente pubblicò in prima pagina i versi esortando i calciatori a cantare, anche perché quello era proprio il Canto degli italiani. Strano destino davvero per un retaggio del Risorgimento che in epoca monarchica veniva sì eseguito ma non come inno nazionale, perché l’onore spettava all’imbarazzante Marcia reale dei Savoia. Poi venne alternato con la Canzone del Piave, in attesa di parcheggiarlo come inno provvisorio dello Stato divenuto repubblica, e rimase lì per la bazzecola di 71 anni, dal 1946 al 4 dicembre 2017, quando quel provvisorio divenne finalmente definitivo con il presidente Sergio Mattarella.
Sul suggello del “Sì”, l’urlo patriottico liberatorio con la mano sul cuore, non si ricordano interventi, mozioni, interpellanze, suggerimenti, discussioni, né nelle aule parlamentari né tanto meno nei bar, nei circoli culturali, nei salotti pariolini e neppure in curva negli stadi. Sull’inno invece le perplessità ci sono state, perché in tanti hanno provato a renderlo migliore di quello che artisticamente è, con arrangiamenti, riorchestrazioni e persino velocizzazioni e rallentamenti dei tempi originali autografi che sono Allegro marziale, Vibrato, Allegro, Pianissimo, Crescendo fino al fine.
CHIAMATA ALLE ARMI
Il testo è frutto dei tempi, ha la retorica dei tempi e persino le ingenuità di un ventenne come Mameli al quale il destino volle impedire di vedere realizzato il sogno dell’Italia unita. La sua è una chiamata alle armi: è l’Italia che chiama e non si può rispondere che sì, perché non si può rispondere no e neppure non rispondere affatto, anche se Mameli non lo rese manifesto. La musica è quella che è, e Novaro pure. Neanche con lui il destino è stato benevolo: se solo si pensa che l’Inno alla gioia è per tutti quello di Beethoven che ne scrisse la musica e non di Schiller che lo pensò, mentre l’Inno nazionale è attribuito popolarmente non a lui ma a Mameli che ne concepì i versi. Novaro si permise quell’aggiunta innocente alla fine e da quella composizione non ricavò mai neppure un centesimo. E in ogni caso non c’è neppure la lesione del diritto d’autore se il “Sì!” viene adesso messo da parte. La musica se ne farà una ragione. Gli italiani e i puristi dovranno accontentarsi ripensando a Dante e al verso dell’Inferno in cui l‘Italia che non esisteva - ma era sognata al pari di Mameli - era il «bel paese là dove ‘l sì suona». Nell’inno nazionale il “Sì!” non suona più.