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A processo, siamo inglesi

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Appunto di Filippo Facci

Tatiana Necchi
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Gli ayatollah anti-bavaglio continuano a intervistare incompetenti di grido (soliti artisti, scrittori, buffoni ecc.) ma i prediletti restano i colleghi della stampa estera, cui di solito rivolgono domande tipo «Aboliscono il giornalismo, da voi c'è ancora?». Prediletti tra i prediletti, obviously, quei cronisti anglosassoni che ci considerano dei trogloditi e che sono sempre incazzati perché vorrebbero essere corrispondenti da un altro Paese. Giovedì scorso, per dire, Repubblica ha intervistato David Lane dell'Economist il quale dapprima ha mostrato di ignorare il disegno di legge (capita anche ai nostri direttori) ma poi, alla domanda «In Inghilterra le cose sono diverse?», ha risposto: «Lì le intercettazioni non vengono pubblicate». Ah. Ecco. Il giorno dopo, sull'Espresso, hanno intervistato l'ex direttore dell'Economist Bill Emmott secondo il quale «Questa legge mette in pericolo la democrazia italiana», ma poi ha precisato: «Da noi le intercettazioni finiscono raramente ai giornali, evidentemente gli inquirenti italiani devono cercare il supporto della stampa». Ah. Ecco. Ieri, infine, il Fatto ha intervistato John Lloyd del Financial Times il quale - dopo altre esternazioni apocalittiche, obviously - ha detto: «Da noi il problema non è così grande come in Italia, perché le intercettazioni raramente vengono rese pubbliche». Da loro, cioè, durante le indagini, e prima del processo, non esce una riga.

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