Cerca
Cerca
+

Delitto Sarah, intervista a zio Michele: "Inferno a casa, in carcere sono rinato"

"In famiglia erano solo lavoro e mazzate. Dicono: ti sei preso la colpa. E che dovevo fare? Sono suo padre" / LODI

domenico d'alessandro
  • a
  • a
  • a

È chiuso in isolamento, ci mancherebbe. E un agente seduto a un banco uguale a quelli della scuola anni Ottanta, lo tiene d'occhio dalla porta blindata color panna. Guardato a vista per le ventiquattro ore intere. Anche se gli hanno dato la cella più bella e più luminosa, quella che si affaccia sul verde e non sul cemento, in questa mattonella di galera sperduta nei campi di via Maglie. A Taranto. «Qui mi trattano tutti bene. Anzi, benissimo. Le guardie sono sempre gentili, gli infermieri e i dottori pure: ogni mattina a chiedermi come sto», racconta con l'aria un po' tonta e un po' furba insieme. È come se per la prima volta, lo zio Michele Misseri del delitto di Avetrana, si stia rendendo conto di trovarsi dentro qualcosa che è soltanto suo. Una tana sicura, dove le angherie che pativa quando abitava con la moglie e le figlie nella casa che lui costruì in via Deledda, non possono più entrare. E alla peggio si devono ricordare come lontane. Ne ha subìte talmente tante zio Michele, che quando è entrato in prigione sembrava un cencio preso a calci per 57 anni. Lo hanno trascinato dentro insieme col mistero di un omicidio che forse non ha commesso (nemmeno secondo l'accusa); ma del quale lui si è preso la colpa per cercare di salvare la figlia di ventisei anni. E Miché, quel 6 ottobre dell'arresto, aveva gli occhi sfuggenti di chi non riesce mai a fissare quelli dell'interlocutore, come capita ai cani abituati al bastone. Oggi questi occhi celesti, sempre inadeguati sulla sua faccia bruciata dal sole e dal lavoro in masseria, puntano dritti il volto di chi gli parla, come fossero due fari. Dalla moglie Cosima, “Mimmina sua”, Miché non ci tornerebbe manco morto. Lo giura. «Qui si sta meglio che in ospedale. Io sono rinato», dice con una serenità che spiazza. «Prima non riuscivo a parlare e nemmeno a pensare, adesso mi sento una persona come le altre», racconta ai parlamentari del Pdl, Melania Rizzoli e Francesco Paolo Sisto, arrivati in vista ispettiva al carcere della Puglia. Nella sua esistenza di ex orco, becchino depravato, omicida a mezzo servizio, improvvisato stupratore di cadaveri e padre e marito disposto a tutto pur di salvare le sue donne, c'è  un «prima» e un «adesso». Dettagli temporali che Michele separa e sottolinea all'infinito. C'è un passato di mostro inventato e un presente di agnello sacrificale della devastata famiglia Misseri, che in questa fase carceraria emerge con prepotenza. Una dimensione che in tanti: a cominciare dagli altri detenuti, dalle guardie, per arrivare a chi lo indaga, suscita un istinto di protezione.  «Non si ha ricordo sia mai capitato nella storia criminale e carceraria», spiega il direttore Luciano Mellone, che sta qui dal '97 e nella testa dei detenuti ha imparato a entrare e uscire con destrezza. Bisogna guardarlo da vicino zio Michele, occorre osservarlo dentro questa cella d'infermeria che è la “suite” del carcere di Taranto e per lui una reggia vera, se si vuole tentare di capire l'omicidio di Sarah Scazzi e il mistero dei personaggi del “pasticciaccio” di Avetrana. A distanza di una decina di corridoi e cinque cancelli c'è la sezione femminile, dove sua figlia Sabrina deperisce, mentre lui qui dentro rifiorisce. «Non è vero che s'incontrano. Falso anche che la ragazza abbia chiesto di parlare con i magistrati dopo avere ricevuto le lettere di papà che invocherebbe perdono», lo spiega ai parlamentari una guardia col basco azzurro che guida la visita ispettiva lungo i corridoi affrescati dai detenuti con ritratti di calciatori e paesaggi verdeggianti. Ce ne sono 610 di reclusi, a fronte di una capienza di 350. Tre soltanto sono donne: una spacciatrice di vent'anni che presto tornerà di nuovo libera, un'altra sui quaranta destinata a rimanere dentro per un bel po', e Sabrina Misseri che è diventata sua amica e confidente. Lei è al colloquio con l'avvocato difensore, questo sabato mattina. Nella stanzetta, a pochi metri dalla sua cella numero 12, cerca di rielaborare la sconfitta arrivata dal Tribunale del Riesame che ha riconfermato il carcere: perché, motivano i giudici, non solo potrebbe tornare a fare quel che ha fatto, ma si ipotizza anche che l'omicidio, Sabrina Misseri, lo abbia perfino premeditato e commesso in casa invece che nel garage. Un capestro che consolida l'impianto accusatorio, nonostante le lettere misteriose e sgangherate fatte recapitare dal padre attraverso la corrispondenza intramuraria. Lui: analfabeta di ritorno, che inchiostra pagine e si scusa per averla ingiustamente inchiodata al delitto.  «Sabrina si era illusa di uscire», confida una guardia ai parlamentari. Sulla sua branda vuota e sfatta, resta il libro che sta leggendo: “Centouno motivi perché le donne preferiscono gli stronzi”.  Un titolo sinistro e che inquieta, se si pensa al movente ipotizzato dai magistrati: l'amore non ricambiato per Ivano e la gelosia accecante nei confronti della cugina assassinata.  «Meglio non veda il padre, se lo incontrasse se lo mangerebbe in un boccone», guardando Sabrina che sia affaccia dalla sala del colloquio smagrita e pallida, senza più i codini da adolescente tardiva ma sempre col fazzoletto asciuga-lacrima in mano, tornano in mente queste parole pronunciate da un  maresciallo. È l'uomo al seguito di Michele che faceva ritrovare il corpo senza vita della bambina, in fondo al pozzo di contrada Mosca. Da allora zio Misseri s'è conquistato una credibilità che è cresciuta  con l'interrogatorio valido per il processo: quello il cui incolpa Sabrina alla responsabilità dell'omicidio e se stesso a quella dell'occultamento del cadavere della nipote. Michele adesso sorride sollevato e orgoglioso della sua cella. È contento perché, essendo sabato, gli sarà servito risotto giallo di zafferano, spinaci e frittata. E poi arriva subito domenica, che significa pasta al forno: il piatto preferito dalla figlia prediletta che ha dovuto far rinchiudere. Lui in prigione si sente un re: «Qui, onorevole,  mangio come nei grandi alberghi», si vanta con Melania Rizzoli. Anche se un albergo lui non lo ha mai visto, tantomeno a più stelle. Ha una branda grande, la più grande di tutte. Due armadietti occupati da uno stuolo di lettere e santini: c'è padre Pio accanto ai santi Rocco e Nicola, la Madonna impressa sul libretto del Salve O Regina che lui recita la sera, perché zio Michele devoto lo è sempre stato. «Ma adesso è diverso da prima», torna a sottolineare con fermezza sfogliando una rivista patinata che dedica la copertina a Teresa di Calcutta, «prima questo giornale potevo leggerlo anche dieci volte e stai sicuro che non ci capivo niente. Proprio niente di niente, te lo giuro. Adesso mi basta una volta per sapere già tutto».  Cos'è cambiato, signor Misseri?  «La differenza è che adesso, finalmente, io ci sto con la testa. E pensare che prima di portarmi qui mi ripetevano parole minacciose: ”Vedrai, se finirai in galera, là troverai un inferno”. Ma io qui l'inferno mica ce l'ho trovato sai? Semmai l'inferno era prima. Certo, mi manca la famiglia certe volte. A chi non mancherebbe il sangue del tuo sangue? Ma io, adesso, sto benissimo qui». Perché si trova meglio qui che non a casa sua? «Perché qui le persone mi vogliono bene e mi rispettano. A casa lavoravo e solo le mazzate mi prendevo. Adesso è tutto finito, guarda qui le mie mani: lo vedi che non sono più nere di lavoro. Sono belle, pulite, mai state così bianche le mie mani. Alle tre del mattino mi alzavo per andare in campagna, qui invece posso dormire.  Riposo, mangio e leggo». Ha il televisore e adesso Michele è orgoglioso di vedersi tanti telefilm: «Prima vedevo soltanto le previsioni del tempo», col colonnello Giugliacci che per lui era una certezza. Gli han dato un tavolino di formica scura che lui ha riempito di lettere spedite da sconosciuti che gli scrivono parole di solidarietà: «Mi dicono “Tu sei un uomo buono perché ti sei preso la colpa per tua figlia”. Ma io che dovevo fare? L'ho sempre detto ai magistrati:  sono suo padre e lei è giovane. Vorrei rispondere a queste persone, ma non trovo... come si chiama? il mittente, ecco il mittente non trovo». Sul tavolino ordinato c'è anche un astuccio nero con dentro gli occhiali nuovi. In carcere i detenuti hanno fatto la colletta per comprarglieli. «Era dal 1974 che non leggevo, perché oltre a non avere il tempo di farlo non ci vedevo: le mie lenti erano vecchie da allora», sussurra timido. In carcere passa ore a parlare con padre Francesco e padre Saverio, e pare che la tutela maggiore consista nel tenerlo lontano da Sabrina e dalla figlia Valentina e dalla moglie. Il passaporto per la gogna, questo detenuto atipico e disposto a rinunciare al diritto alla fuga, se l'è guadagnato fin da quando era bambino. A sei anni faceva già lo schiavo nelle campagne di Manduria e da allora non ha più smesso. Michele Misseri è uno che la maestra non l'ha mai incontrata e la scuola la vedeva sì e no quando ci passava davanti col carretto del padrone a cui l'aveva consegnato il padre Cosimo. Ha cominciato a quell'età a spaccarsi la schiena nelle masserie, dalle sei del mattino fino a notte. La sua è la storia di un mostro mancato e di un marito che non riesce a farsi rispettare; un Babau che inciampa nel proprio mantello e fa grottesche capriole all'indietro, lavando all'occorrenza le scodelle alle donne di casa e dormendo su una sdraio come un barbone. Pena, le mazzate. Come quella volta in cui Cosima lo spinse in malo modo dentro il garage del delitto, solo perché Miché aveva osato rispondere a un giornalista che lo interpellava. Proprio lei, che con le figlie e le sorelle, si era consegnata alle parabole delle tv inscenando un reality  dell'orrore senza precedenti. C'erano volte che Miché vagabondava intorno alla consorte  per un pugno di euro, come fosse un randagio. La cassa era gestita da lei e Michele si faceva dare i soldi per togliere il guasto al trattore, ma la riparazione la faceva lui e si teneva in tasca quelle poche monete. Adesso non è più costretto a mentire, non mette nemmeno la camicia jeans impastata di terra né il capellino da pescatore calato sulla testa: indossa con fierezza  un maglione blu e il pantalone dalla piega ben stirata. Ripete che in galera è finalmente «tornato alla vita e a sentirsi una persona». Il suo incubo non è il processo, ma tornare a casa da sua moglie. Soprattutto adesso che Mimmina è stata costretta scegliere. E fra lui e Sabrina, lei ha scelto la seconda. 

Dai blog