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La priorità di Napolitano: non rovinare i rapporti con l'India

A tre settimane dall'incidente, il presidente rompe il silenzio sul caso dei marò prigionieri nel Kerala. Per non dire nulla

Matteo Legnani
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Il drammatico incidente che è costato la vita a Ajesh Binki e a Jalastein e la galera a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone risale al 15 febbraio. Ieri ha parlato Giorgio Napolitano, dopo cinque giorni di drammatico acuirsi della crisi diplomatica tra Italia   e India e al terzo giorno di appello lanciato da Libero e sottoscritto da migliaia di lettori, protagonisti della finanza, dell'informazione, dello sport e dello spettacolo, di cui su queste pagine è pubblicata una piccola porzione. Giampaolo Pansa, Ennio Doris, Fabio Capello, Javier Zanetti, più una pletora di ex ministri e politici di diversi schieramenti, desideravano una presa di «posizione chiara e forte» da parte del comandante delle Forze Armate italiane, ruolo che la nostra Costituzione affida al Capo di Stato. È difficile considerare tale la nota quirinalizia di ieri. C'è un evidente lato positivo: il Colle - cosa di cui era in effetti impensabile dubitare - è in campo: ha fatto sapere di essere «fin dall'inizio in continuo contatto con i ministri degli Esteri, della Difesa, e anche personalmente e direttamente con il sottosegretario De Mistura che era in India. E ho avuto modo di rivolgermi ai familiari dei due marò per esprimere la mia apprensione, la mia partecipazione e la massima vicinanza e solidarietà». Napolitano ha poi dato conto del colloquio telefonico tra il premier Mario Monti e l'omologo indiano, definendolo «improntato alla massima cordialità e a uno sforzo di reciproca comprensione», sforzo non molto avvertibile vista la sberla presa sulla grana dell'immunità per i nostri due soldati. Al momento, la difficile attività del governo ha avuto come massimo risultato quello di far conservare la divisa e una sistemazione diversa da quella degli occupanti comuni delle galere indiane a Latorre e Girone, più la scelta del menu. La frase più consolante è quella in cui il presidente della Repubblica difende in maniera inequivoca i marò: «Riaffermiamo con decisione le ragioni dei nostri militari impegnati in una missione di indubbia importanza per la comunità internazionale». Quindi dà corpo alle sacrosante ragioni della diplomazia: «Evitiamo qualsiasi elemento di incrinatura nel rapporto di amicizia e di reciproco rispetto tra Italia e India perché la continuità di questo rapporto è la migliore garanzia per una soluzione positiva del caso dei nostri due marò. Per riportare, essendo questo l'obiettivo di tutti noi, i nostri due marò in Italia, l'unica via è quella di una accorta azione sul piano giuridico e giudiziario, anche perché abbiamo una magistratura indiana che opera secondo le sue regole e in piena indipendenza, e di un'azione molto tenace e riservata anche sul piano politico e diplomatico. Questo è l'unico modo per riportare i ragazzi a casa».  L'andatura felpata del Capo di Stato è comprensibile, ma si scontra con l'ostilità palese che ieri ha plasticamente contrapposto Monti a Singh. Possono pesare ragioni elettorali e nazionalistiche, ma la versione indiana è che i nostri militari non possono godere dell'immunità. Quella italiana - francamente solida - è che l'incidente non è avvenuto sul territorio del Paese asiatico, e peraltro nel corso di una missione internazionale. Da questo punto di vista - e senza parlare dei tanti dubbi «tecnici» dell'episodio -  se i marò avessero sparato a due indiani sul lago di Como, come ha notato Daniele Raineri sul Foglio, non sarebbe cambiato nulla in punta di diritto. Anche per questo, l'appello di Libero prosegue: non per trascinare le istituzioni in una ridicola e inutile muscolarità para-bellica, né - come ha scritto ieri Europa - per un nazionalismo di risulta con cui cannoneggiare i tecnici mollicci. La difficoltà che il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha mostrato nel condividere un messaggio di solidarietà nei confronti dei marò è un motivo in più per tirar dritto, nell'evidenza che chiedere a un Paese di muoversi per due suoi soldati vittime di una chiara anomalia non è una battaglia «di destra». Assomiglia più al buon senso, praticabile quasi ovunque. di Martino Cervo

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