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Luca Bernardo si difende dalle accuse: "Ma quel pistola in corsia? Ecco tutta la verità sul porto d'armi"

Simona Bertuzzi
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Quanto le ha dato fastidio finire sui giornali come il medico sceriffo che va in corsia con la pistola?

«Più che altro mi ha infastidito sentirmi dire che non posso andare nelle case a visitare i bambini perché sono primario. Ma stiamo scherzando? Quelle sono visite che faccio a titolo gratuito, per me fare il medico è una missione e ogni volta che un bambino sta male corro, i miei pazienti lo sanno».

Sono passate 24 ore dal gran polverone. L'intervista a Repubblica del consigliere regionale di + Europa Michele Usuelli (titolo sobrio: Bernardo in ospedale armato, spieghi perché) è lì che giace sul piatto e scatena ancora parecchi appetiti a sinistra. Ma Luca Bernardo, candidato sindaco del centrodestra a Milano, dopo aver spiegato diffusamente che ha il porto d'armi da dieci anni (e che male c'è?) ma in corsia con la pistola non è mai andato, ha ripreso a macinare chilometri e incontrare cittadini come nulla fosse. C'è una campagna elettorale da fare. E una città da curare a detta di molti. «Non dormirò la notte finché vedrò ancora una sola persona dormire per strada», ha detto il pediatra del Fatebenefratelli. «Non dormirò la notte finché saprò che i nostri bambini non possono giocare nei cortili delle case in cui vivono o nei parchi, finché gli anziani resteranno chiusi in casa per paura che le loro stesse abitazioni siano occupate abusivamente».

 

 

 

Tanta solidarietà Bernardo dopo le accuse?

«Tantissima. E a chi mi ha criticato oggi ho detto "vieni qui e dialoghiamo", ho sempre fatto del dialogo e della non violenza la mia ragione di vita e il messaggio da trasmettere ai giovani che sono in cura da me. Chi mi conosce lo sa. Il resto non conta».

Se l'aspettava un colpo basso del genere?

«Sono pubblicista anch' io e quello che ho imparato è la verifica delle fonti. Se uno mi chiama e mi dice "Bernardo va armato in ospedale" posso anche crederci ma faccio i dovuti riscontri. Fa parte del mestiere. In ogni caso domani faccio la denuncia per diffamazione a mezzo stampa».

Ma lei lo conosce bene Usuelli?

«È un dottore come me. È stato mio allievo al San Paolo. Gli ho insegnato a fare il medico rianimatore prenatale».

Bel ringraziamento.

«Gelosia... Guardi, glielo dico sinceramente. Avrei preferito parlasse di più dell'arma ma non mettesse in dubbio la mia attività di medico. Ho vissuto un mese in corsia nel lockdown per stare vicino ai miei pazienti. Ho rinunciato a dormire la notte a casa per curare i malati di covid e perché medici e infermieri sapessero che il loro primario gli era accanto e non li abbandonava. E anche se dovessi diventare sindaco non smetterei di essere prima di tutto un dottore che presta assistenza e cure a chiunque ha bisogno».

La sinistra però ci ha marciato... hanno preso l'intervista e gliel'hanno rivoltata contro.

«Ed è una sinistra deludente. Diversissima da quella laboriosa e attenta che conosco io. Anche l'altro giorno alla Martesana dei ragazzi dei centri sociali sono venuti a contestarmi. Ho detto loro "venite e parliamo". Cosa hanno ottenuto urlandomi addosso? Niente, meglio sarebbe stato confrontarsi con me».

Sala come si è comportato?

«Io dico solo che in una campagna elettorale si devono affrontare i temi della città. Vero è che si sarebbe almeno potuto distaccare dai metodi di una certa sinistra. Spiace aver constatato qualche caduta di stile».

La criticano anche quando va nelle periferie ad ascoltare i problemi dei milanesi.

«Non parlerei di periferie ma di quartieri di Milano. Facce diverse di una stessa città, ognuna con una sua identità. Mi dicono che non posso parlare del parchetto della droga di Rogoredo perché non ci sono stato. Ma io a Rogoredo, al Gratosoglio e a Lambrate sono andato da medico, per fare prevenzione e informazione tra i miei ragazzi, dunque so bene di cosa parlo. E intendo applicare ai quartieri lo stesso metodo che applico in corsia, l'ascolto, la prevenzione e la cura fondata innanzitutto sull'inclusione e la non violenza».

 

 

 

 

Il suo centro contro il bullismo nasce proprio per aiutare i ragazzi problematici.

«E le assicuro che vengono da tutta Italia e sono sempre più numerosi. Ogni anno curiamo dai 1220 ai 1250 giovani. Il 70% sono vittime della rete (cyber bullismo, revenge porn...). Il resto di abusi e violenze. Ero negli Usa e già studiavo il fenomeno. E avevo compreso che nella vita c'è una malattia acuta e cronica e una altrettanto difficile di chi subisce violenza. Metà dei letti del nostro reparto sono occupati da ragazzi di questo tipo e non basta una pillola, serve una terapia».

La famosa cura della non violenza...

«Esatto. Noi abbiamo aperto una palestra di Krav maga, un'arte marziale di origine israeliana, e l'abbiamo reinterpretata. Non si fa combattimento da noi. Si insegnano l'autostima e l'autodifesa. Molti ragazzi hanno vergogna, perché la violenza che hanno subito li porta ad avere disistima di se stessi. Dunque si allenano in palestra e riprendono a volersi bene, sostenuti dal personale medico e dagli psicologi. È un percorso terapeutico. Che cura l'anima e insegna a riappropriarsi della propria vita e a reagire nel giusto modo ai violenti. Cosa dire se uno ti urla in faccia. Cosa fare se qualcuno ti attacca alle spalle. Mai alzare la voce, mai avere un tono di sfida. Il rispetto e le regole sono fondamentali. È questa la prima cosa che ti insegnano in una palestra. Non c'è posto per la violenza quando si fanno le arti marziali. Anche i corsi riservati alle donne vittime di abusi sono concepiti in questo modo».

E poi ci sono le lezioni di belle arti..

«Era ancora ministra del Miur la Gelmini e in accordo con l'accademia di belle arti inventammo corsi riservati ai ragazzi vittime di bullismo. Imparare a usare i materiali, la creta, il pongo, la cartapesta per ricostruirsi. Queste sono le cose concrete. E non è solo la vittima di bullismo che va aiutata ma anche il bullo e il carnefice perché loro stessi per primi sono stati vittime».

Quando capisce che la battaglia è vinta?

«Quando trovo la cura per i miei pazienti. Una ragazzina anoressica aveva girato tutti gli ospedali perché non trovava il modo di guarire poi è stata otto mesi da noi ed è rinata».

Dipingerla come medico sceriffo vuol dire proprio snaturarla.

«Ma le pare che io possa andare armato in corsia, tra i miei ragazzi, dove peraltro almeno fino al covid entravo senza camice? Non sono uno sceriffo sono un medico. Non amavo travestirmi da sceriffo neppure da bambino. E penso che nessuno al mondo debba sentirsi autorizzato a farsi giustizia da solo».

Dove è la pistola adesso?

«In cassaforte da mesi».

Ma lei perché ha chiesto il porto d'armi. Chi l'ha minacciata?

«Le minacce alla categoria sono reali e l'ha ribadito anche l'ordine dei medici ieri. Nel '98 un collega che lavorava al San Paolo è stato ucciso da un paziente psichiatrico con la balestra. Anni fa venne da me a curarsi un ragazzino siriano col suo papà. Il ragazzo era problematico. Io cercavo di aiutarlo. Ebbene il papa mi disse "ti taglio la gola", "ti scanno"... A giorni alterni, per tre mesi, la polizia l'ha portato via in manette». 

 

 

 

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