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Pietro Senaldi: "Nicola Zingaretti alza la voce e vuole comandare il Pd. Ma i suoi sono pronti a silurarlo"

Cristina Agostini
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Il segretario del Pd ha ancora la fronte madida di sudore. L'ha scampata bella. I suoi erano già con il coltello in mano, pronti ad affettarlo come una mortadella qualora la sinistra avesse perso in Emilia-Romagna. Zingaretti però ha avuto l' umiltà di farsi vedere il meno possibile da quelle parti, dove il governatore Bonaccini aveva saggiamente tolto il simbolo dem da tutti i propri cartelloni elettorali, e di optare per la Calabria per il suo appello finale alla sinistra. Risultato: al Sud il partito ha dimezzato i voti ma nella regione rossa è tornato al seggio anche chi non si faceva vedere da un decennio. Così il segretario l'ha sfangata e ora prova a dire che comanda lui. Non si capisce se il messaggio sia ai grillini, a Conte o ai suoi. Ieri si è tenuta la verifica di governo. Doveva tenersi dopo le feste natalizie ma, siccome evidentemente l'Italia ha tempo da perdere, è slittata di tre settimane, sperando che si dipanasse il quadro. L'attesa non ha aiutato a sciogliere l'arcano su quale direzione darà l'esecutivo al Paese né sui destinatari del messaggio di Zingaretti né su chi comanda davvero. Il premier Conte come Checco Zalone, il suo conterraneo più famoso ma meno comico, continua a cantare «siamo una squadra fortissimi», poi però non la mette mai in campo, segno che così sicuro di sé non è. Ieri il vertice si è risolto nello stabilire il cronoprogramma del cronoprogramma dell'azione dell'esecutivo. In pratica, si è fissata l'agenda secondo la quale affrontare i problemi, senza tentare di risolverne neppure mezzo. Il comandante Zingaretti l'ha presa come una buona notizia. Almeno per un giorno nessuno gli ha parlato sopra. Leggi anche: "Di Maio? Schiena dritta, sta soffrendo". Giorgetti impensabile: mano tesa DATA DI SCADENZA - In realtà la situazione del fratello di Montalbano ha luci e ombre. La sua data di scadenza era fissata per marzo, nella grande assise da lui stesso convocata per sciogliere il Pd in un minestrone con dentro tutti: comunisti, progressisti, sardine, intellettuali, centri sociali, prodiani, bersaniani, dalemiani e quant'altro. Una sorta di Ulivo 57.0, tanti sono infatti i tentativi della sinistra di rifondarsi e partire con un cartello unitario. La vittoria in Emilia-Romagna aiuterà il segretario a passare le idi di marzo. D'altronde, come denunciato anche dalla stazza, la forza di Nicola è la resistenza: quando è in trincea non lo sposti, è un incassatore straordinario, pacioso in apparenza, tignoso nella sostanza. La sua forza è la guerra di posizione, incollato alla poltrona, non quella d' attacco, volta a fare qualcosa. Nicola dunque vuole comandare; e i suoi ora che gli è andata bene glielo lasciano pure dire. Tanto, poiché non ha manco un'idea, la sua rivendicazione di potere non si tradurrà mai concretamente in azione politica, è un' affermazione stanziale. E siccome la verifica di ieri non doveva far altro che constatare l'immobilismo del governo, per una volta il segretario è in armonia con il calendario. Lavora in suo favore il fatto che, anche se l' esecutivo e il Parlamento non rappresentano la volontà della maggioranza dei cittadini, le eventuali elezioni anticipate si sono allontanate. MOMENTO DELLA VERITÀ - Fino a che il gioco non si fa duro e la carica di segretario sarà poco più che onorifica, il presidente della Regione Lazio (casomai qualcuno non se lo ricordasse) può dormire sonni tranquilli. La sua poltrona comincerà a traballare allorché conterà qualcosa, ovverossia quando bisognerà decidere le candidature. Prima di quel momento, i suoi compagni di partito proveranno a fargli la festa; per ora, lo lasciano sorridere come un allegro salumiere destinato però a finire nel piatto. Il suo destino è stato deciso nel momento in cui è stato nominato. È stato scelto perché serviva un segretario più a sinistra di Renzi, e questo non era difficile trovarlo, ma soprattutto un gestore, un uomo di transizione, non un leader. Uno che può organizzare l'ammucchiata, non dirigerla. La sua forza aggregante è dovuta proprio al fatto che, al momento buono, lo leveranno di mezzo. Non è un caso se tutti i pezzi grossi del Pd si sono tenuti al largo dal governo. Vogliono avere le mani libere per giocarsela quando ci sarà da giubilare Conte e scegliere il capo vero. Zingaretti lo sa e, malgrado all' inizio sia stato il più restìo tra i dem a varare l' esecutivo giallorosso, adesso ne è il più fervente sostenitore, con Franceschini. Uno perché vuol tirare la maggioranza fino al 2022, inseguendo il suo sogno del Quirinale. L'altro perché se lascia la guida del Nazareno gli tocca guadagnarsi la vita alla Regione Lazio, avendo a che fare con la Raggi tutti i giorni. Meglio Conte, e in questo lo capiamo e condividiamo. di Pietro Senaldi

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