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Enrico Bertolino: "Come il coronavirus ci ha reso peggiori"

 Enrico Bertolino a Milano

L'attore barricato sentimentale scrive un libro, racconta il peggio dei Covid e si confessa: "Mio padre è morto pensando che lavorassi in banca..."

Francesco Specchia
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“Noi ragioniamo a zampa d’elefante…”, la frase che Enrico Bertolino - milanese con la nebbia nei polmoni e l’acqua dei Navigli nelle vene- distilla per descrivere la sua generazione fatta di nostalgie e pensieri solidi e oggi stravolta dal Covid, è perfetta.

Figlio di un idraulico installatore (“Andasse male non mi preoccupo, posso sempre mettermi a tirar giù sifoni e impiantare scaldabagni”), bocconiano, ex bancario e formatore per le multinazionali, Bertolino a 37 anni s’è lasciato invadere dallo spirito vaporoso di Walter Chiari, di Raimondo Vianello e degli stand up comedian americani alla Lenny Bruce; ora che di anni ne ha 60, ha pensato bene di scrivere un libro Le 50 giornate di Milano- Diario semiserio di un barricato sentimentale (Solferino) che, nelle intenzioni narra le avventure d’un città a bagnomaria ma in realtà è un bollettino di guerra delle sue molte vite.

Bertolino, che cosa hanno in comune questo libro e l’Instant Theatre, il suo monologo bloccato dal contagio?

“Be’, erano saltate, per il Coronavirus, due date dell’Instant, tutte sold out. Era un peccato sprecare tutto quel pubblico. Allora i miei hanno avuto l’idea di farne un succedaneo via Facebook, Sapessi com’è strano restare chiusi in casa a Milano e sono venuti tutti a girare a casa mia, perfino il fonico di Marghera, indomito, che mi ha detto ‘tanto da noi il virus è arrivato ed è già morto, con tutto quello che respiriamo siamo vaccinati fino al 2040’”.

Il tema, però, era delicato. A parte che oramai il Covid è diventato un genere letterario. L’esito non era incerto? Del tipo: se non fai ridere ti dicono: “Cosa le avevo detto?”, e se fai ridere “ma le sembra il caso?”

“Esatto. Come parlare del terremoto all’Aquila. Ne è uscito, credo, il ritratto di una comunità rimasta in casa ma che non ha perso l’umanità. Il libro all’inizio era solo nelle edicole e negli autogrill; e io lì, senza pudore, a fare come quegli autori che lo mettono sopra la colonna dei libri di Ken Follett. Però è vero: oggi tutto è filtrato dal Covid. Tutto è Covid free, noi stessi stiamo preparando uno Zelig Covid edition. C’è stata una comunicazione volutamente allarmista, perché il contagio era qualcosa di inedito da affrontare; mi ricorda quando mio padre mi diceva da ragazzo: ‘Ti avviso: se vai in discoteca, torni drogato’. Per non dire del copione ansiogeno del bollettino quotidiano della protezione civile…”

Diciamola chiara. Il libro strappa sorrisi, ma è anche una scudisciata di rara spietatezza alle convenzioni, e alla figura del lombardo medio. Altro che milanese imbruttito…

“Be’, io sfato dei luoghi comuni. Esempio. Non è vero che si lavora bene in smart working: un conto è se vivi a Versailles, un altro in appartamento di 50 metri con figli che fanno lezioni in videocall. In più non ti puoi nascondere, quando ti citofonano: di ‘sti tempi, non puoi fare come con i testimoni di Geova e fingere di non essere in casa. C’è di buono che almeno riscopri la famiglia; l’altro giorno ho incrociato mia figlia che mi ha detto: ‘Lei chi è, vive qui?’.

Sottoscrivo appieno. Il lavoro da casa non ci rende affatto migliori. In alcuni casi, a costo di sembrare cinici, non ha avvertito colate di buonismo eccessive, tipo “andrà tutto bene” ripetuto a mantra?

“Andrà tutto bene’, una beata fava. Qui i soldi non arrivano, le imprese chiudono, i sussidi latitano. E no, il virus non ci ha resi migliori, le teste di minchia rimangon tali anzi peggiorano. Prendi gli evasori totali: hanno visto i medici in trincea, gli ospedali intasati, ma non credo che, illuminati sulla via di Binasco, vadano a costituirsi alla Finanza”

L’altro giorno un parlamentare M5S, tal Ricciardi, ha attaccato la Lombardia. Da lombardo lei come l’ha presa?

“La Lombardia nella gestione della salute pubblica e privata qualche riflessione deve farla. Ma, a parte la brutalità del modo, non era il caso di infierire su una regione già in ginocchio. Attaccare Fontana, che in questo momento è come l’umarell il vecchietto che si mette di guardia ad un cantiere troppo grande, è propaganda. Bisognerebbe fare come in Portogallo dove l’opposizione ha firmato un patto col governo: noi non vi rompiamo i coglioni, ma voi ci ascoltate sul serio. Il silenzio d’oro. Un modello che da noi hanno seguito solo Zaia e Bonacini. Ma non vorrei buttarla sul politico”

Anche Giorgio Gaber rispondeva così. Ma anche lei, con questa sorta di racconto grottesco della sua città, di fatto fa politica. Non le pare?

“A me dispiace per Milano nel virus. Dopo l’Expo e grazie a tutte le amministrazioni, dalla Moratti in poi, era sul punto di trasformarsi in una nuova Londra se non sul settore del farmaco in quello della finanza, oltre che della moda. Ed ora si sveglia all’improvviso e si ritrova un sobborgo di Anversa. E’ dura. Però, certo, è vero: con i miei spettacoli di fatto mi immergo nella politica”

Lei è in pista con Zelig dal ’98, ha lavorato con grandi come Gregorio Paolini in Ciro il figlio di Target, ha fatto cose raffinatissime spesso in anticipo sui tempi (alcune troppo come Wikitalia coi dati Istat). Che poi, ‘sta cosa di essere un precursore incompreso era una battuta di Vianello. Lei si riconosce?

“Raimondo era in grado di ammazzarti con una battuta. Poi c’era gente come Noschese: ti invito a rivedere il suo sketch su una partita a scacchi fra Fanfani ed Ingrao. Ma un tempo c’era un retroterra culturale; oggi la gente sa chi è De Luca solo per l’imitazione di Crozza. Oggi i tempi non hanno chi li precorre. Anzi, ogni cosa ha il suo tempo: io dieci anni fa facevo Glob che mandava in onda i video da Youtube ed era roba inedita; oggi c’è già Zoro, con Propaganda mi ha superato. E molti dei suoi spettatori sono ragazzi che vanno su Tik Tok e con me non c’entrano nulla. E’ tutto imprevedibile…”

In Glob lei varò un’esilarante finta rassegna stampa dei quotidiani. Lo sa che Gianni Ippoliti rivendica quell’idea?

“Ha ragione, gliel’ho pure riconosciuto. Ma se ci mettiamo a fare battaglie di copyright fra comici non usciamo. A me un collega romano ha rubato paro paro 25 minuti di spettacolo, e quello che mi secca è che faceva ridere più di me”

Lei ha fatto anche del buon cinema con Sordi, Pellegrini, Vanzina. Perché ha smesso? La tv rende di più?

“Se è per questo ho lavorato anche con Gabriele Vacis, uno di quegli intellettuali con la Lacoste chiusa sull’ultimo bottone, i più pericolosi. Ma non posso dire che non volevo fare cinema, è il cinema che non mi ha voluto. Non ho quel tipo di talento lì, alla Zalone. So fare altro. E’ una buona cosa riconoscere i propri limiti ed essere sinceri”

Però quando lasciò la banca e i corsi di formazione in Danimarca per lo spettacolo con suo padre, lei sincero non lo fu affatto…

“Mio padre, riteneva il teatro una cosa da deficienti. “Quelli ridono di te”, “Ma papà, farli ridere è il mio lavoro”, rispondevo. E lui: “Enrico, però non mollare la banca, con tutte quelle mensilità”. Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo, il pover’uomo è morto pensando che fossi in aspettativa”.

Bertolino, una domanda terribile alla Marzullo: lei ha più rimpianti o rimorsi?

“Ha ragione, è terribile. Una grande delusione fu un programma, Festa di classe, che l‘allora direttore Carlo Freccero a Raidue presentò come la rivoluzione delle tv, chè porta una sfiga e venni sostituito da Pippo Franco. Ma ho anche bei ricordi. I più belli sono legati al triplete dell’Inter a Madrid e a una sera a casa di Salvatore Bagni, dove m’intrattenni fino allo sfinimento con un piccoletto con un sigaro in bocca. Era Maradona…”

 

 

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