Vincenzo Miuccioli

Se per San Patrignano il film su SanPa è terribile

Francesco Specchia

C’è una foto classica su San Patrignano, datata anni 80, che evoca il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo in versione comunità di recupero.

Vi si osserva, in una limpida giornata d’autunno, Vincenzo Muccioli in cravatta e armato del sorriso delle grandi occasioni, che scende la collina di Coriano di Rimini seguito, tra i filari, da centinaia di ragazzi della sua fortezza-ostello nel momento del massimo fulgore. Ecco. Da quell’immagine, impressionante nella sua forza fatta di abbracci, di volti scavati, di un’insolita impressione di compattezza, si basano i flashback di partenza SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano. Ossia la docu-serie originale creata e scritta da Gianluca Neri, con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli e la regia di Cosima Spender, uscita da pochi giorni e finita tra le prime dieci produzioni Netflix più viste. Il film su SanPa, materiale storico e sociale altamente infiammabile, è piaciuto a molti, tranne che alla SanPa originale. Che, in un comunicato durissimo, se ne dissocia completamente: “Il racconto che emerge è sommario e parziale, con una narrazione che si focalizza in prevalenza sulle testimonianze di detrattori, per di più, qualcuno con trascorsi di tipo giudiziario in cause civili e penali conclusesi con sentenze favorevoli alla Comunità stessa, senza che venga evidenziata allo spettatore in modo chiaro la natura di codeste fonti”. La Comunità, attraverso la benedizione di Andrea Muccioli figlio del fondatore, aveva aperto le sue porte alla produzione, permettendo alle troupe di infilarsi nei gangli di una macchina sociale complessa, palpitante, efficacissima, a volte mediaticamente controversa. Ne sono usciti cinque episodi (i cui titoli sono: Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta) che, attraverso 25 testimonianze, 180 ore di interviste e migliaia di immagini tratte da 51 differenti archivi, hanno coperto un arco di circa 15 anni di vita dell’istituzione. La comunità aveva fornito agli autori anche un elenco di ulteriori testimoni, “un ampio ventaglio di persone che hanno vissuto e o tuttora vivono a San Patrignano”. Ma “tale elenco è stato totalmente disatteso, ad eccezione del nostro responsabile terapeutico Antonio Boschini, preferendo lasciare spazio ad un resoconto unilaterale che paia voler soddisfare la forzata dimostrazione di tesi preconcette”. Tesi che poi, pare di capire, sarebbero le solite: l’evocazione dei metodi poco ortodossi, spesso violenti, di Muccioli nella cura dei tossicodipendenti, dal 78 al 1995, anno della sua morte; e il suo modo, assai accentratore di gestire un gruppo di accoliti un po’ hippie trasformato in un’organizzazione di taratura mondiale; e l’idea stessa della figura del patròn di SanPa – demonio o santo?- che divideva, quasi politicamente il Paese.

Molti ricordano, per dire, il famoso “processo delle catene”, del 1983, in cui si discusse, appunto, delle catene messe a polsi e piedi di alcuni “ospiti” più esagitati della comunità. Un processo che portò a un’iniziale condanna a 20 mesi di carcere per Muccioli, a cui seguì un’assoluzione con formula piena; anche perché i parenti degli eroinomani, e i tossici stessi, ringraziarono Muccioli per averli sottratti all’inferno della droga. Sicché SanPa oggi si ribella ad un’operazione a suo parere denigratorio. E si dice inoltre preoccupata “per gli effetti negativi e destabilizzanti che potrebbero ricadere sull’oneroso lavoro di recupero, reinserimento e prevenzione” sui quali è impegnata; e, cita “diversi studi indipendenti di prestigiosi atenei sia nazionali che internazionali” che dimostrano come principi e metodologie di recupero dell’istituzione -che agisce in modo gratuito- siano completamente diversi da quelli raccontati a puro scopo di “intrattenimento commerciale”. Beninteso: SanPa, tecnicamente, non è una serie malfatta. Tutt’altro. Ma è anche vero che se la produzione – specie nel primo episodio – dedica spazio al problema della dipendenza dalla droga ma anche all’ Aids che imperversava in quegli anni, è altrettanto vero che abbandona quasi subito il racconto della tossicodipendenza e la descrizione di cosa essa significhi per vittime e famiglie delle vittime. E lo fa per concentrarsi quasi del tutto alla figura di Muccioli rapportandola al racconto politico ed economico della nazione, e immergendolo, a tratti, nel chiaroscuro. Se SanPa non si riconosce nella descrizione qualcosa non torna; e i suoi timori potrebbero essere fondati. Per inciso. Se io, comunque, avessi avuto un figlio tossico negli anni 70/80, lo avrei lasciato con convinzione alle sberle di Muccioli, pur di vedermelo salvato dall’abisso…