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La rivolta di Budapest tagliata a strisce

Graphic novel e foto inedite
di Francesco Specchia giovedì 11 novembre 2021

 L'uomo di Budapest

3' di lettura

La scrittura è la torcia nel buio. «La scrittura è stata ed è medicina, piacere, casa, riconferma che esisto, ma anche straordinaria - forse unica per me - possibilità d'incontro, e non penso solo a libri e articoli ma anche a Facebook, che è la mia piazza, il mio bar, il mio ristorante, il mio giardino pubblico e la mia passeggiata a mare».
Dovremmo fornire la definizione che Stephen King diede sul senso della parola scritta in On writing, a quel drappello di studenti che sta chiedendo attraverso la piattaforma Change.org l’eliminazione della prova scritta al prossimo esame di maturità. La loro petizione non lascia scampo: «Noi studendi maturandi chiediamo l’eliminazione delle prove scritte all’esame di maturità 2022, poiché troviamo ingiusto e infruttuoso andare a sostenere un esame scritto in quanto pleonastico, i professori curricolari nei cinque anni trascorsi, hanno avuto modo di toccare con mano e saggiare le nostre capacità. Inoltre abbiamo passato terzo e quarto anno in Dad, penalizzandoci, distruggendo parte delle nostre basi che ci sarebbero dovute servire per l’esame. L’ ulteriore stress di un esame scritto remerebbe contro un fruttuoso orale indispensabile come primo passo verso l’età adulta. Sicuri di un suo positivo riscontro le porgiamo i più cordiali saluti». 
Occhio: per il ragazzi l’esame sarebbe “infruttuoso”, “pleonastico”, “stressante”. 
E quando parlano di prove scritte, non si riveriscono soltanto alla calligrafia, alla penna che produce l’arabesco del corsivo e la rigidezza dello stampatello. Cosa oggettivamente già difficile da ingerire per i teenagers d’oggi, abituati al dettato dei pensieri nelle chat e ai paratattici dei post inzeppati di contrazioni, sigle e anglicismi. In quel caso consiglierei loro un bellissimo rap di Capareza, China Town («Non è la fede che ha cambiato la mia vita/ma l’inchiostro/che guida le mie dita»). Ma, il vero problema è che la loro paura ancestrale stia, in realtà, nell’uso tout court delle riflessioni articolate e messe per iscritto. Al momento in cui scriviamo, l’appello anti-scrittura sul web ha raggiunto le 34.500 firme. Cioè: ci sono in Italia 34.500 ragazzi che trovano stressante e anacronistico pensare di scrivere, di riempire un foglio bianco, di fissare le oponioni in una gabbia di carta che non abbia la friabilità di una story di Instagram. Abbiamo un problema. La verità è che la scrittura è, da sempre, il primo elemento dello scatto evolutivo di una civiltà. Se passasse il principio della cancellazione della scrittura, dell’irrefutabilità dell’inchidare la parola in movimento, be’, a lungo andare potremmo, per paradosso, tornare alla tradizione orale. Che è l’esatto contrario della profondità e dell’analisi. Certo, la società va in direzione inversa.
Il successo di social come Clubhouse in America (non da noi) sublima l’oralità e la chiacchiera  spesso provvisorie. Le chat e i messenger sostituiscono i diari intimi e le corrispondenze con gli amici di penna di decenni fa. I podcast invadono l’immaginario giovanile (purse senza scrittura non esisterebbero) e  diventano rumore di sottofondo del nostro tempo libero.
E gli stessi botta-e-risposta (scritti) di WhatsApp nella maggior parte dei casi diventano la traduzione di messaggini audio. Però, alla fine, è il vecchio “tema” –un genere letterario ibrido- ad offrire la possibilità di lasciare un segno di se stessi al mondo, ad alimentare e ordinare la fantasia del racconto. Certo, io parlo in leggero conflitto d’interesse: senza la scrittura non sarei qui. Ma non lo sarebbero neanche i maturandi dissidenti: la scrittura salva il loro mondo fatto, spesso, di lidi insicuri e di inadeguatezza. Solo che non lo sanno…

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