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Abraham Yehoshua ovvero gli eccessi della memoria collettiva come ostacolo alla pace

 Abraham Yeoushua

Francesco Specchia
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La volta che gli fu chiesto il bilancio della sua irredenta esistenza, era il novembre del 2021; Abraham Yehoshua villeggiava in Italia. Aveva, probabilmente, appena riletto il suo livre de chevet, il Cuore di De Amicis che da bambino l’aveva posseduto più della Torah; era già molto malato e, con fatica, attendeva l’uscita del suo racconto italiano, La figlia unica; e, nel rispondere, aggrottava quel faccione a metà fra uno speziale di Salonicco (come il padre) e un Babbo natale senza barba.

«Sono davvero giunto al mio ultimo capitolo. Ho vissuto una vita piena, di speranza, di positività, ho goduto di un'epoca di benessere. Dopo la Shoah avremmo potuto essere solo reperti da museo, e invece è nato lo Stato. Ho scritto negli anni in cui la letteratura della mia generazione ha ricevuto riconoscimento internazionale. Sono grato per tutto questo» confidò Yehoushua, a cuore aperto, a Sharon Nizza che lo intervistava per Robinson. «La morte di mia moglie ha segnato un grande cambiamento: c'è una differenza abissale tra la vita in solitudine e di coppia. E poi è venuto a mancare l'altro partner, Amos Oz. Abbiamo tirato avanti per sessant'anni, scrittori invidiosi e amici dell'animo. Tutti i miei compagni se ne stanno andando, mi sento come l'ultimo soldato rimasto nella vedetta». Ecco, è in quell’intervista che emerge plasticamente l’essenza di Yehoushua, il “Faulkner israeliano” morto ieri all’età di 85 anni. 

Abraham detto Buli, viveva una vita monca dalla scomparsa della moglie Rivka psicanalista raffinatissima che l’aveva convinto a dimorare non nella febbricitante Tel Aviv, né a Gerusalemme troppo carica di simboli, di passato e di muri del pianto; ma a Haifa città laica e marittima aperta a mille culture. A parlare dello Yehoushua letterario vengono in mente i suoi capolavori come L’amante–anno 1977, ma pubblicato in Italia dieci anni dopo-, Un divorzio tardivo, Viaggio alla fine del Millennio, Cinque stagioni, Ritorno dall'India. E Il responsabile delle risorse umane da cui il regista Eran Riklis trasse un film candidato all’Oscar. A evocare la sua figura possente di scrittore “latore di cose normale”, gli esegeti ne narrano: la grande raffinatezza sintattica; la passione maniacale per l’ “attacco” in ogni storia; la conoscenza perfetta quasi rabbinica della lingua ebraica; il gusto dei dettagli sempre immersi in magnifici bagni di luce; e la capacità di immedesimarsi nei suoi personaggi al punto da farsene dominare («Quello volevo, farlo morire ma lui s’è rifiutato»). In Italia, la sua “seconda patria” Yehoushua aveva ricevuto tutti gli onori e i premi possibili dal Grinzane Cavour al Flaiano.

Leggere Yehoushua che pure della trimurti di giganti israeliani – lui, David Grossman e <Amos Oz- era il più mediterraneo, corrispondeva ad immergersi nell’anima stessa di Israele. Ebreo fino al midollo, «di quinta generazione nata a Gerusalemme», sionista accanito, lo scrittore era ascoltatissimo dai rappresentanti d’ogni colore dello Stato ebraico. Ma, a differenza di molti patrioti oltranzisti,  sosteneva la necessità degli ebrei di essere una «nazione normale», con un territorio, una sovranità e una lingua unica, veloce e liberal: l'ebraico moderno. Poi c’era quell’idea del feticcio della Shoah, mai del tutto superata «per il rifiuto degli ebrei di misurarsi con la categoria della Patria». «Siamo in uno stallo che a un certo punto diventerà realtà e sarà un esperimento sul campo. Nessuna delle parti riflette davvero sul da farsi. La destra vive nell'illusione che lo status quo sarà eterno, la sinistra continua con il mantra dei due popoli, due Stati», continuava Yehoushua nell’intervista alla Nizza. E raccontava la paura e l’incertezza sulla convivenza tra israeliani e palestinesi: «In Israele vivono due milioni di arabi da settant’anni. La nostra economia è interconnessa. Il popolo ebraico ha vissuto tutta la sua storia all'interno di altri popoli, ora ha paura di un altro popolo al suo interno?». 

E, da qui, ecco la teorizzazione di una sorta di demenza provvidenziale, dell’oblio letto come soluzione politica ripreso nel romanzo Il tunnel del 2018. Perché –dice Abraham- l’eccesso di memoria collettiva degli uni e degli altri rende impossibile, transgenerazionalmente, ogni tentativo di arrivare alla soluzione del conflitto arabo/israeliano

«Rivangare nel passato paralizza. Dobbiamo un po’ dimenticare, tutti quanti. Per quanto ancora dobbiamo parlare di profughi palestinesi? Non si può essere profughi 70 e passa anni. E, in ogni caso, perché questo deve essere un impedimento a costruire, sviluppare dove è possibile? Siete la Palestina, costruitela! E gli israeliani, basta con questa narrativa dicotomica ashkenaziti contro sefarditi: siamo un'identità israeliana, mediterranea. Bisogna smettere di guardare alle origini in Polonia, in Yemen, la sinagoga in Lituania  Perché dobbiamo continuare a cercare le radici nella diaspora dove abbiamo sofferto e perso milioni di vite?». Da sionista, voleva che i suoi libri fossero tradotti  in arabo. Ne Il signor Mani, Yehoushua racconta del probabile assassinio del protagonista sulla Spianata delle moschee. Mani tentava l’impossibile: convincere gli arabi a trasformarsi in ebrei, e a far diventante, ancora una volta la Spianata, un luogo di culto ebraico. Yehoushua sapeva di aver vissuto la vita in una speranza irrazionale. Ma rimarrà la sua eredità per le generazioni a venire.

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