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Massimiliano Fuksas: "I miei progetti? Buttati", la rivelazione choc

Giovanni Terzi
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«Fino a pochi giorni fa mi sentivo garantito, in un fragile contesto nazionale ed internazionale, dalla presenza di due uomini al comando del nostro paese: il Presidente Mattarella e Mario Draghi. Oggi ne è rimasto uno solo e non è certo una cosa positiva in questo momento». Così racconta Massimiliano Fuksas iniziando la nostra intervista. «Viviamo un periodo storico di straordinarie e complicate trasformazioni sociali che il nostro paese stava affrontando in modo serio e dove Mattarella e Draghi rappresentavano una soluzione, anche se temporale, di un dramma molto più serio. Trasformazioni anche dal punto di vista geopolitico dove la guerra ne è una testimonianza decisiva».

 

 

 

Lei pensa che la guerra tra Russia ed Ucraina nasca per il diverso substrato culturale?
«Assolutamente no. È un conflitto che nasce per interposta persona».

Cosa intende dire?
«Che i veri duellanti, sul piano internazionale, sono gli Stati Uniti d'America e la Cina ed è in questo scenario che Russia ed Ucraina si stanno facendo la guerra».

Per quale motivo dice questo?
«Avevo organizzato nel 2010 una cena a Londra, in un ristorante italiano, per celebrare la vittoria al concorso internazionale per la costruzione dell'aeroporto di Shenzhen, uno dei tre hub più importanti della Cina meridionale. Alla fine della cena presi coraggio e, dato che in Cina non si parla mai a tavola né di affari né di politica, chiesi ad un politico che in quel momento rappresentava il governo cinese cosa ne pensasse dell'America (eravamo nel bel mezzo della crisi economica e della recessione americana dovuta ai suprime e al mercato immobiliare). In quella occasione, dopo una lunga pausa, il politico mi rispose "gli Stati Uniti hanno brevetti importanti per quanto riguarda la scienza ma tra vent' anni non si sa". Oggi di anni ne sono passati dodici ma lo scontro tra Cina e Stati Uniti è ormai evidente e totale e riguarda due sistemi economici avanzati.
In questo scontro nessuno è risparmiato neppure l'Africa che, con le sue terre nobili, giocherà una partita fondamentale».

Ed in tutto questo l'Europa che partita gioca secondo lei?
«L'Europa è arrivata troppo tardi e sta arrancando. Ci fosse stata una maturazione del progetto europeo come quella immaginata da Altiero Spinelli staremmo giocando una partita diversa nello scacchiere geopolitico internazionale. Ad oggi, a titolo di esempio, non abbiamo un Ministro della difesa Europeo, nemmeno uno dell'Economia o degli Esteri, insomma siamo in grande ritardo per la creazione degli Stati Uniti d'Europa».

In questo scenario di incertezze geopolitiche internazionali il nostro paese si sta giocando l'ennesima crisi di governo. Cosa ne pensa?
«Quando a votare va il 45% degli aventi diritto significa che i partiti, espressione della politica, hanno fallito e segnato una distanza tra il Parlamento ed il paese reale enorme e, ad oggi, incolmabile. Immagini che i partiti di maggioranza relativa prendono circa il 20% dei consensi. Votando meno della metà degli elettori significa che il consenso dei partiti più votati si aggira a nemmeno il 10% dei voti».

Perché secondo lei succede questo?
«La verità è che non siamo riusciti a strutturare una forma politica in modo avanzato e che la politica italiana è rimasta ferma alla fine dell'Ottocento dove c'era una contrapposizione tra classe operaia e forze conservatrici che erano lo specchio reale del paese. Poi, dopo i totalitarismi tra le due guerre, nessuno ha trovato un'altra forma».

Ed i movimenti studenteschi del 1968?
«Gli studenti nel Sessantotto rappresentavano il ceto medio, la scuola era interclassista e c'era l'ascensore sociale, ma anche la contestazione studentesca, che era un segno importante per trovare altre forme di emancipazione moderna della società, alla fine, non è riuscita in quell'intento ed ha fallito. Il nostro paese ha vissuto dal dopoguerra in poi con due colossi, DC e PCI, che avevano più del 70% dei voti nel paese. Questi due partiti decidevano le sorti dei cittadini attraverso l'arte nobile della politica, rispettandosi e dialogando, mentre il PSI, la terza forza politica del paese, si era fermata al massimo al 13-14%. Insomma siamo rimasti ancorati a questo modello che non aderisce più alla attuale società. Quindi modelli vecchi di politica che non sono coerenti con la società contemporanea generano quel distacco tra cittadini e istituzioni a cui stiamo assistendo».

 

 

 

Ed in questa situazione generale la polemica della dirigenza dello Spallanzani e della Regione Lazio per il suo progetto. Cosa ha da dirmi?
«Che siamo al paradosso. In questo paese non si può nemmeno regalare qualcosa alla propria nazione. Diversamente da ciò che avviene nel resto del mondo dove lavoro».

Mi può spiegare?
«Le faccio un esempio. In Israele regalo un progetto per la costruzione a Jaffa del Shimon Peres Peace Center, un centro per la pace voluto dal premio Nobel Shimon Peres. Ebbene, fatto il progetto, questo viene realizzato in tempi record. In Italia, in periodo Covid, mi hanno chiesto, la Regione Lazio e l'ospedale Spallanzani di Roma, un progetto di "camera calda" ovvero una struttura che permette ad un'ambulanza di essere immessa in una zona dove non subisce uno shock termico né per il caldo né per il freddo. In seguito, il progetto si è evoluto ed hanno previsto che comprendesse un laboratorio e un centro di ricerca. Con il mio studio lo abbiamo presentato senza chiedere per questo lavoro nemmeno un euro».

E poi cosa è accaduto?
«Del progetto, una volta regalato ed in loro possesso, invece che realizzarlo ne hanno fatto un concorso dando ai vincitori 200 mila euro: un nonsenso. Il progetto era di loro proprietà ed era gratuito così che potevano costruire senza che noi chiedessimo nulla. Ma, come si sa, la "bouillabaisse" può essere fatta in molti modi».

Le era già accaduto?
«In Italia sì. Avevo regalato il progetto del lungomare di Ostia e non si è mai realizzato. Così come accadde a Roma per il progetto per il riassetto dei Fori Imperiali che sarebbe stato realizzato per ridare unità ai differenti Fori e alla sequenza delle piazze antiche che diventavano, finalmente, liberamente percorribili e capaci di contenere spezzoni di vita quotidiana moderna. Questo avveniva grazie ad un sistema di passerelle che ricostruiva molte delle strade medievali perdute: era un progetto in cui la città archeologica sarebbe entrata in sintonia con la vita contemporanea. Questo progetto venne proposto da una persona straordinaria, l'ex sovrintendente Adriano La Regina, e fatto assieme a mia moglie, Doriana Mandrelli. Ma anche qui nulla. Anche a Palermo successe la stessa cosa quando il Presidente del Tribunale voleva che si facesse un progetto in onore e memoria dei giudici Falcone e Borsellino. Nulla da fare. La burocrazia vince sempre».

Ritornando alla guerra, lei era stato in Russia proprio pochi giorni prima dello scoppio del conflitto con l'Ucraina?
«Era il 20 febbraio quando andai a vedere il nostro progetto dell'aeroporto di Gelendzhik, una città della Russia meridionale sul Mar Nero. Siamo partiti da Roma Ciampino direzione San Pietroburgo evitando l'Ucraina e passando sopra la Slovacchia, la Polonia e la Lituania che è peraltro la mia terra. Sorvolando lo spazio della odierna guerra in aereo, pochi giorni prima dell'invasione di Putin, mi sono accorto che c'era qualcosa di non risolto: una macchia nera, una frattura tra l'Europa e la Russia, enorme geograficamente e strategicamente, era il giorno prima dell'inizio del conflitto ed ho vissuto uno stato di calma apparente».

Lei è di origine lituane?

«Sì e proprio in quel viaggio mi è venuto in mente mio nonno Michelas Moshe, di origine ebrea e famiglia benestante (il padre era un mercante di sale a Kaunas). Mio nonno potè continuare a studiare - perché le leggi razziali zariste non lo permettevano all'epoca - solo andando a Heidelberg in Germania per fare medicina. Lì conobbe mia nonna. Durante la prima guerra mondiale mio nonno muore e mia nonna, che aveva già due figli Raimondas (mio papà) e Anatol, andò a vivere a Mosca».

Conosce bene quindi quella cultura...

«Assolutamente sì, sia per motivi personali che professionali. Ricordo che un giorno un imprenditore Russo mi fece capire come loro non si sentivano europei ma un continente a parte. È da lì che bisogna partire per comprendere questa guerra».

Lei è nato in Lituania?

«No, sono nato a Roma perché mio padre, morto appena dopo la fine della seconda guerra mondiale a trentasette anni, fece lo stesso percorso di studi di mio nonno, prima in Germania, terminando con un corso di perfezionamento a Roma. Fu a Roma che papà incontrò mia mamma, italiana che si laureò in filosofia con Gentile, e che per fortuna è mancata a 101 anni. Quando si sposarono fecero il loro viaggio di nozze prendendo un cappuccino a Roma, dove vivevano, in un bar che si chiamava Ruschena. Siamo una famiglia europea».

Un'ultima domanda Fuksas: cosa dovrebbe fare il nostro Paese e l'Europa per essere una potenza strategica mondiale?

«Pur essendoci in Italia delle personalità politiche interessanti come Fedriga, Bonaccini, Sala, Nardella e Zaia si potrebbe fare di più. Mi viene in mente proprio una frase che Shimon Peres mi disse due mesi prima di morire "non c'è democrazia senza innovazione e non c'è innovazione senza democrazia". Da qui si dovrebbe partire: dalla innovazione anche nella politica». 

 

 

 

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