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Soumahoro e ipocrisie: dello schiavismo non interessa a nessuno

Iuri Maria Prado
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Le piantagioni schiaviste, con gli immigrati incurvi sotto il sole a raccattare ortaggi per un emolumento miserabile, e poi i dormitori di lamiera con le fogne a cielo aperto, e le baraccopoli e i casermoni di periferia che a fine giornata si affollano di quella gente lacera, coinquilina dei ratti in festa in un trionfo di immondizia e deiezioni, non sono episodiche vicende scandalose sfuggite al controlli civile di chi blatera di diritti: sono la realtà risalente e sistematica che offre buona materia elettorale e da comizio a chi non saprebbe che fare senza la riserva di quel degrado. Il regime schiavista cui sono sottoposti quei disgraziati non è l'effetto del neoliberismo selvaggio e dell'oscena logica del profitto che li tiene incatenati al proprio destino derelitto: è l'effetto di un dirittismo declamatorio, analogo alla retorica operaista che ha garantito agli operai italiani i salari più bassi d'Europa, e che trae alimento proprio dall'irreversibilità di quella condizione miserabile. Perché piuttosto che inserirli in un circuito virtuoso della produzione, competitivo, concorrenziale, anziché limitarsi a caricarli sul conto di un welfare simultaneamente insostenibile e straccione, il poverismo della Repubblica fondata sul lavoro preferisce farne una massa in attesa dell'assegnazione del diritto acquisito al sussidio, e per i più meritevoli un posto in lista. Questi giorni di polemica hanno reso solo più spettacolare una realtà manifesta da sempre, e cioè che di quella gente non frega niente innanzitutto a quelli che fanno le mostre di tutelarne i diritti.

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