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Paolo Berizzi, "l'acchiappafascisti" di Repubblica? Dove ha iniziato la sua carriera

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Giovanni Longoni
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Per diventare un provetto cacciatore di nazifascisti occorrono poche cose: andare allo stadio, spassarsela e disinteressarsi della politica. Se vi sembra eccessivo, leggete qui di seguito la storia degli inizi giornalistici di Paolo Berizzi, firma di Repubblica - su cui ha una rubrica, Pietre - e autore di sette libri perlopiù sui temi del neofascismo italiano. Un filone che lo ha reso famoso e, a destra, antipatico. Paolo e io ci siamo conosciuti nel 1999 al Borghese. La prima esperienza in una redazione del noto flagello di nostalgici del Ventennio, veri o presunti, fu in effetti nella testata fondata da Leo Longanesi, riportata in vita da Daniele Vimercati e poi passata, nel 1998, a Vittorio Feltri. Io vi lavoravo già da qualche mese dopo che Vittorio, mosso a pietà dalla vita inconcludente di un nipote laureato al DAMS e senza idee concrete su cosa fare, mi aveva imbarcato nell’impresa. Berizzi invece fu arruolato da Feltri per il suo grande talento di scrittore e perché, per portare a casa un servizio, non si fermava davanti ad alcunché. Insomma, il cronista ideale per Vittorio che continua a stimarlo, ricambiato; Paolo infatti ama definirsi «feltriano di sinistra». Feltriano, come detto, lo è molto; quanto all’essere di sinistra, beh, è qualcosa che deve essere maturato nel tempo perché vent’anni fa “di destra” e “di sinistra” sembravano per lui solo modi per classificare le tifoserie ultras del calcio. Un argomento che lo appassionava (come la cucina di alto livello) e su cui era (ed è) davvero competente.

Il Borghese era un ambiente stimolante, con grandissimi collaboratori di cui, dati gli spazi ristretti, ricordo solo Massimo Fini e Alberto Pasolini Zanelli. In redazione molti giovani: c’erano Daniele Bellasio, Michele Arnese, poi Albina Perri e Anna Sartorio. Paolo ed io diventammo presto amici: eravamo entrambi bergamaschi, separati da soli tre anni di età e avvicinati da due caratteri antitetici. La sua esuberanza si inseriva a pennello in quel gruppo anarchico. Lo rivedo sfrecciare in monopattino per l’open space; voleva convincerci a comprare alcuni di quegli ordigni che oggi hanno invaso le città. «Su, Braga», diceva incitando il caposervizio bolognese, «acquisto istintivo, dài». L’unico che ci cascò e ne prese uno, mi pare, fu Alessandro Sallusti che dirigeva con Feltri il Quotidiano Nazionale (Vittorio si divideva fra il nostro settimanale a Sesto San Giovanni e Bologna, quartier generale della rete di quotidiani Riffeser). Inevitabilmente, dato che non si era ancora nel puritano XXI secolo, si scadeva negli scherzi da caserma.

Il futuro autore di Bande Nere nemmeno in questo era l’ultimo: insieme a un collega si presentò nell’ufficio di Leonello Bertolucci, raffinato photo editor che schifava quei giornalisti che giudicava rozzi; a un cenno convenuto, i due estrassero dai pantaloni i rispettivi membri sessuali. Lo sventurato Leonello cadde dalla sedia per lo spavento. Con l’età si cambia, evidentemente. Perché proprio ieri quella stessa persona criticava Giorgia Meloni per la sua gag sul saluto a braccio teso perché «Ironizzare sul fascismo è sempre una scelta azzardata». Nella rubrica, invece, se la è presa con Alessandro Giuli per aver citato con rispetto le idee di Josef Beuys. Berizzi lo definisce «ex nazista della Hitlerjugend» ed altre nefandezze simili.

E sì che Repubblica stessa avesse parlato di Beuys come di «una delle personalità più significative della cultura europea del secondo ’900». Mi ricordo, a proposito di nazismo, quando aiutai Paolo a realizzare un servizio per il Borghese sulla politica negli stadi. Era il gennaio 2000: il famigerato Comandante Arkan era stato appena assassinato e i tifosi della Lazio dedicarono uno striscione elogiativo al capo paramilitare serbo. Berizzi, con la mia complicità, realizzò un manifesto simile nella forma, con tanto di simbolo esoterico (in realtà copiato dal logo di uno spedizioniere tedesco i cui mezzi incrociavo ogni mattina pendolando fra Bergamo e Milano) e uno slogan para-comunista. Ci introducemmo allo Stadio delle Alpi di Torino: io passai tutti i controlli senza farmi perquisire, introducendo lo striscione che avevo nascosto sotto un ampio e goffo impermeabile degno dell’ispettore Derrick (maledizione! un altro nazista). Esponemmo il cartellone e ci mettemmo in disparte. Solo dopo un’ora la polizia venne a controllare, ma il manifesto restò lì ancora a lungo. Evidentemente non era abbastanza di destra. Paolo raccontò tutto con la sua penna eccezionale. E oggi quando sento gente che si infuria per i suoi servizi mi viene da ridere. Perché mi è difficile prenderlo troppo sul serio. 

 

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