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Elkann, Gianni Oliva: "Così la morte di Gianni Agnelli ha cambiato tutto"

Lucia Esposito
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Gianni Oliva è uno storico, studioso appassionato e instancabile del Novecento. È nato e vive a Torino e alla sua città ha dedicato uno dei cinquanta saggi che ha pubblicato, Storia di Torino. Dalle origini ai nostri giorni, Edizioni biblioteca dell’immagine (a fine 2024 è prevista una ristampa in un’edizione integrata e aggiornata sugli ultimi dieci anni).

Nessuno più di lei può raccontarci del legame unico tra gli Agnelli e Torino.
«Dall’inizio alla fine del Novecento è impossibile distinguere la storia degli Agnelli da quella di Torino».

Come nasce il potere di questa famiglia?
«Gli Agnelli sono originari di Priero, vicino a Ceva, basso Piemonte. All’inizio del ’700 si trasferiscono in provincia di Cuneo, a Racconigi, un grande centro di produzione serica, poi ai primi dell’800 spostano i loro commerci a Torino».

Quando arrivano in città sono quindi già ricchi?
«Hanno già un bel patrimonio».

Come sono passati dal commercio all’automobile?
«Giovanni, rimasto orfano di padre, viene avviato dalla madre alla carriera militare, ma si congeda che ha già 26-27 anni e torna a Torino».

E cosa fa?
«Gestisce la sua proprietà di Villar Perosa e frequenta il bel mondo, in particolare il caffè Burello, a due passi dalla stazione di Porta Nuova. Qui incontra un gruppo di giovani che iniziano a parlargli delle carrozze che si muovono senza cavalli che le tirano».

Che anni erano a Torino?
«Nel 1861 la città aveva più di 200mila abitanti e si pubblicavano 47 giornali tra quotidiani e periodici, ma quando smette di essere capitale perde circa 40mila residenti. È necessario riscrivere la sua storia e nascono tante piccole imprese. Due sindaci illuminati prevedono sgravi fiscali per chi impianta attività imprenditoriali, così nei primi anni del 900, Torino conta 46 industrie meccaniche».

E Giovanni Agnelli?
«Capisce che per fare una grande impresa serve specializzazione e un rapporto col mondo della finanza e della politica. Nel 1899 fonda la Fiat creando una società con alcuni di quei personaggi che frequentava al bar, anche loro benestanti. Va negli Usa a vedere cosa fa Ford, è convinto che la produzione debba essere segmentata e vada realizzata in serie».

È in questo momento che si crea il legame stretto con la città?
«Alla vigilia della prima guerra mondiale l’edificio di corso Dante dove è nata la Fiat conta già 4mila dipendenti. È una delle più grandi aziende italiane. Giovanni ha trasformato Torino nella capitale dell’auto. Nel 1925 viene messa in piedi la “Sava”, la società che presta i soldi per comprare le vetture. È stata una delle sue tante intuizioni avveniristiche».

Che peso hanno avuto i rapporti con la politica?
«Nel periodo 43-45 l’ad Vittorio Valletta resta a Torino, il presidente Giovanni Agnelli va a Roma. Quest’ultimo tiene i rapporti con gli americani, mentre Valletta con i tedeschi che occupano i territori del Nord. Valletta ha un altro grande merito: quando viene fatto il piano Marshall, il 20 per cento dei finanziamenti previsti per l’Italia arriva alla Fiat. Il boom economico dell’azienda negli anni 50-60 è anche figlio di quella scelta».

Intanto Gianni Agnelli cresce all’ombra di Valletta.
«Dagli anni ’60 agisce in prima persona. È il periodo in cui cambia la storia di Torino e nasce la grande motorizzazione dell’Italia. Sul mercato arrivano la Cinquecento e la Seicento, le auto per tutto le tasche. Torino aveva 700mila abitanti nel 1951, nel 1971 arrivano a un milione e 420mila».

E i torinesi?
«Fino agli anni Ottanta ci siamo sentiti come la città della Fiat. E Torino viveva al ritmo della fabbrica».

Con Gianni arriva il glamour...
«Il fondatore era un uomo dell’800, mentre Gianni vive nel bel mondo, sul suo panfilo ospita Jacqueline Kennedy e questo dice anche il livello di rapporti che tesseva. Era un uomo di grandi intuizioni e di battute fulminanti. Quando Enzo Biagi gli disse che Buscetta tifava Juventus, lui rispose: “Gli dica che almeno di una cosa non deve pentirsi”».

Quanto ha pesato la Juventus?
«Negli anni ‘30 ha vinto cinque scudetti di fila, in quel periodo nacque la radio. Fu il primo evento sportivo ad avere una eco nazionale. Nei decenni successivi aveva calciatori di tutte le regioni e anche per questo è la squadra con più tifosi da tutt’Italia».

Quando finisce l’idillio Torino-Agnelli?
«Con la morte di Gianni e poi di Umberto. Ma a Gianni dobbiamo un’altra cosa: il suo ultimo investimento sono state le Olimpiadi del 2006 (lui era scomparso da tre anni). È arrivata una grande quantità di denaro, Torino si è reinventata e ha riscoperto la sua vocazione turistica».

Cosa resta di quel passato?
«Quel mondo non esiste più, ma resta il legame con la Juve. Andrea Agnelli è stato presidente della squadra, John Elkann ogni tanto si vede allo stadio».

Se dovesse riassumere i talenti degli Agnelli?
«La capacità di capire all’inizio dell’800 che cos’è l’industria moderna, di mettere insieme il mondo dell’impresa quello della finanza, dell’editoria e della politica, di riuscire a essere popolari attraverso l’investimento nel calcio».

Ma ci sono tante ombre...
«Tutte le storie hanno anche pagine buie».

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