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Francesco Pazienza, agente segreto e faccendiere: l'uomo dei misteri

Morto a 79 anni l’ex 007 del Sismi. Fu coinvolto in varie indagini: dal crac del Banco Ambrosiano fino alla strage di Bologna dell’80
di Claudia Osmetti lunedì 23 giugno 2025

5' di lettura

Nato nel Tarantino nel ’46, Francesco Pazienza si laurea in medicina ma il bisturi non è la sua strada. Sveglio, colto brillante, inizia la carriera prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Nel 1979 si arruola nel Sismi che lascia due anni dopo in seguito al polverone sulla P2 e in contemporanea con l’affaire Cirillo, assessore democristiano della Campania, rapito dalle Brigate Rosse. Gestisce la trattativa e i contatti con la camorra e alla fine Cirillo viene liberato. Poco dopo finisce coinvolto nel crack del Banco Ambrosiano.

Imprenditore, agente segreto, faccendiere. Soprattutto faccendiere. Ché quella parola gli era stata cucita addosso: coniata appositamente per lui da Eugenio Scalfari, riferita al fatto che fosse una «modesta persona» e rivendicata pure sulla copertina del suo ultimo libro (La versione di Pazienza, Chiarelettere, 2022). È che Francesco Pazienza, morto ieri nell’ospedale di Sarzana, in provincia de La Spezia, a 79 anni, era uno di quegli uomini che i misteri d’Italia (al plurale) li ha vissuti in prima persona. Se non da protagonista, quasi. Una vita in chiaro scuro, la sua: nel senso che sui giornali c’è finito sì, e anche parecchio, ma è più quello che non ha fatto notizia che gli ha regalato un’esistenza come ce ne sono poche.

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Ex agente del Sismi quando l’intelligence italiana si chiamava ancora così (poi è diventata il Sisde), massone vicinissimo a Ligio Gelli ma mai formalmente iscritto alla Loggia P2, giramondo, scrittore e testimone di un’epoca che sembra lontana anni luce e che conta nomi come Ciro Cirillo, Emanuela Orlandi e persino Ali Agca. Non sempre Pazienza ammette, alle volte nega. Categorico, risoluto (lo fa, per esempio, quando l’attentatore di papa Giovanni Paolo II lo accusa e lo identifica come quel “funzionario italiano” che, in carcere, lo ha interrogato): esattamente ciò che ti aspetti da un agente segreto, tra non detti, verità a metà, nel corso degli anni condanne e affari spifferati solo quando è necessario.

È nato nel Tarantino, in Puglia, in un paesino di poco più di 2mila anime, Monteparano, in quel lontano 1946 che oggi fa parte del secolo scorso e, con la società che cambia a ogni post di Instagram, ci sembra un’era geologica addietro. Si laurea in medicina, ma il bisturi non è la sua strada: la professione non la eserciterà mai, in compenso la carriera per antonomasia di Pazienza, quella del faccendiere, inizia negli anni Settanta prima in Francia (a Parigi) e poi negli Usa (a New York). Due città scelte che sono tra i simboli del benessere occidentale post-bellico: con un incarico come consulente finanziario, il giovane Pazienza pone le basi per la rete di contatti che si porterà sempre appresso.

È un ragazzo sveglio, è colto, è brillante, se la cava sempre e ha una qualità che spesso è sottovalutata: l’ambizione. Capisce, prima di tanti altri, una cosa semplicissima: il potere, quello vero, ha poco a che fare con la politica elettorale e molto a che spartire con il dietro alle quinte. Ed è proprio lì, dove nessuno guarda, che lui, invece, si rivolge. Nel 1979 si arruola nel Sismi, ci resterà solo due anni ma sono due anni intensi: anzitutto il suo referente è il generale Giuseppe Santovito (che tra non molto verrà risucchiato dallo scandalo della e in secondo luogo il ruolo che gli è destinato sembra inventato ad hoc: in pochi mesi diventa il cervello operativo di quella «struttura parallela» (le virgolette appartengono ai magistrati che indagheranno a riguardo) dentro il mondo dei servizi, il “Super Sismi”. Una sorta di organizzazione non ufficiale ma con un grande peso, caratteristiche che a Pazienza piaceranno fino alla fine.

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Lascia il Sismi nel 1981 (nel frattempo l’Italia è scossa dall’attentato del 2 agosto alla stazione di Bologna: ci sono 85 morti e la procura è orientata verso la pista nera, ma Pazienza, assieme ad altri due generali, spinge per un depistaggio, fa collocare una valigia esplosiva su un convoglio per Taranto con lo scopo di alimentare la tesi dei bombaroli palestinesi e per questo, quattordici anni dopo, si becca una condanna definitiva nei confronti della quale non si pentirà mai, anzi affermerà che «volevamo solo dare un’altra ipotesi ai magistrati»), a seguito del polverone sulla P2 e più o meno in contemporanea con l’affaire Cirillo.

Cirillo è un assessore democristiano della Campania, è appena stato rapito dalle Brigate Rosse. È passato relativamente poco dal sequestro di Aldo Moro, ma lo shock nel Paese è ancora parecchio e lo Stato, in questo caso, decide di trattare. È proprio Pazienza a muoversi nell’ombra: gestisce lui la trattativa, prende i contatti con la Camorra di Raffaele Cutolo, briga e si dà da fare tanto che Cirillo vede la libertà. «Salvai una vita, non come quelli che dissero no a Moro»: spiegherà Pazienza a cose fatte. Il come ci sia riuscito, se ci sia stata una contropartita, se sia stata in denaro, i dettagli non li verrà mai a sapere nessuno.

L’età dell’oro, tuttavia, è destinata a finire quando l’anno successivo il crack del Banco ambrosiano spazza via ogni speranza. Il banchiere di Dio Roberto Calvi si è appena impiccato a Londra, l’istituto di credito è al collasso, Pazienza (che ha fatto da intermediario tra Calvi, il Vaticano e la P2) scappa negli Usa. Lo arrestano a Manhattan nel 1985, nel portafoglio ha diversi passaporti falsi e in cassaforte i documenti sul più grande caos finanziario d’Italia: «Non avevamo mai visto una mente così organizzata nel crimine», dirà sette anni dopo uno dei giudici che lo condanneranno per bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere all’interno di un processo che parte dai fondi dell’Ambrosiano per arrivare al sindacato polacco Solidarnosc, all’Ira irlandese e ai gruppi antisandinisti dell’America Latina (il tutto col beneplacito, secondo Pazienza, della Cia e della Santa Sede).

Stacco temporale e secolo in corso: Pazienza finisce a Rebibbia, nel penitenziario di Sulmona e in quello di Parma. È il 2007, ha 61 anni, quando viene affidato ai servizi sociali e si ritira a Lerici, nello Spezzino, per fare il volontario (guida ambulanze e porta il suo aiuto anche nel sisma dell’Aquila) e per scrivere alcuni libri citando una storia, la sua, a metà tra un film e un gomitolo di enigmi, per la quale non si scuserà mai (al contrario: «Non ho mai tradito, ho fatto quello che dovevo e ho pagato anche per chi non è mai stato sfiorato») e che lo lascerà per sempre con la nomea di essere stato uno degli uomini chiave, piaccia o no, indigni o meno, di mezzo secolo di storia repubblicana.

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