Ma fatela finita. Anzitutto i politici: nel 2006 la sinistra bocciò la proposta di legge sulle intercettazioni del Guardasigilli Roberto Castelli perché c’era la campagna elettorale, poi ci fu la diffusione delle intercettazioni su Antonveneta e la sinistra cambiò improvvisamente idea, così nel 2007 la sinistra votò la legge proposta da Clemente Mastella (assieme a Margherita, Verdi e Rifondazione) ma poi la legge si arenò al Senato; allora nel 2008 arrivò Valter Veltroni e promise di riesumare la proposta, ma poi ricambiò idea anche lui e si accodò alle posizioni dell’Associazione nazionale magistrati.
Nel 2010 il governo Berlusconi cercò di blindare una legge ma fioccarono manifestazioni (anche una mitica assemblea di direttori di giornale) e il provvedimento si sfarinò, con Massimo D’Alema che definì la norma «ostruzionistica per le indagini» e lo stesso Pd, poi, in Commissione giustizia, che nel 2013 disse che «il tema non è una priorità». Ed eccoci così al Decreto Orlando (2017) praticamente mai entrato in vigore dopo un tentativo nel 2019, una conversione con modifiche nel gennaio 2020 e un posticipo al maggio e poi ancora al settembre dello stesso anno. Tutte carte inutili. Non serve una riforma, macché.
PAROLA DI SAGGI
La facciano finita anche i presidenti della Repubblica. Sergio Mattarella ha appena difeso «l’indipendenza dei magistrati» e questo è stato tradotto come una difesa delle intercettazioni così come sono, ma nel giugno 2012 Giorgio Napolitano aveva detto che «se il tema è da tanto tempo all’attenzione del Parlamento vuol dire che si tratta di una questione che meritava già di essere affrontata», allora l’anno dopo (2013) nominò un gruppo di «saggi» secondo i quali l’uso delle intercettazioni andava senz’altro ridotto. Lo stesso Napolitano, nel maggio 2017, aggiunse che « È una questione aperta da anni con sollecitazioni frequenti da parte delle alte istituzioni, io personalmente ho messo il dito in questa piaga e non c’è mai stata una manifestazione di volontà politica per concordare provvedimenti che avessero messo fine a questa insopportabile violazione».
Ma facciamola finita soprattutto noi giornalisti, i peggiori di tutti, sempre scontenti di ogni legge perché convinti che frugando tra le intercettazioni rilevanti o irrilevanti (decidiamo noi) potremo scovare notizie di «interesse pubblico», esercitando una sorta di controllo sociale da parte di redazioni ognuna delle quali, ovviamente, ha un diverso concetto di interesse pubblico.
Esempi: quanti ne volete. Nel settembre 2017 Repubblica scrisse che la fondamentale intercettazione in cui si rivelava che «la patonza deve girare» era «il mondo in una frase», un'intercettazione che aveva «svelato il lato oscuro del potere», anzi, un «simbolo della stagione delle cene eleganti». L’elenco di Repubblica proseguiva con intercettazioni prese da processi che spesso non avevano portato a nulla (né le intercettazioni né i processi) ma solo a un canaio sui giornali, a sputtanamenti, niente che spartisse niente con le ragioni per cui le intercettazioni esistevano e venivano disposte.
C’È PRIVACY E PRIVACY
Anche allora, nel 2017, direttori e cronisti volevano che nulla cambiasse. Anche allora il timore del «bavaglio» riguardava solo carte e verbali di persone note, soprattutto politici e cosiddetti colletti bianchi: anche perché sono perlopiù le persone note a finire sui giornali, dunque è naturale che il problema della privacy- che pure riguarda tutti i cittadini- si ponga a partire da loro. Ma per Repubblica, nel 2017, la pubblicazione di un interrogatorio di una ragazza polacca stuprata – a opera di Libero – era una cosa immorale, mentre riportare gli audio neppure depositati della escort Patrizia D’Addario che s’intratteneva con Silvio Berlusconi (erano audio privati) invece era morale, e rivelava il lato oscuro del potere.
Il 29 settembre 2015, nel giorno in cui l’avvocato Caterina Malavenda (Corriere, e avvocato di Marco Travaglio) dimostrava un sensazionale talento comico e invitava i giornalisti a essere giudici delle intercettazioni che potevano pubblicare, il Fatto Quotidiano dimostrava che cosa significava questa discrezionalità: pubblicava «le intercettazioni che il governo vuole vietare» anzi «le conversazioni dell’ex ministro De Girolamo, ritenute irrilevanti», col dettaglio, appunto, che erano totalmente irrilevanti. Ma al Fatto non basta che le intercettazioni siano irrilevanti: le cavalca anche quando sono inesistenti. Non stiamo parlando della vicenda incivile che riguardò le tre ministre Brambilla e Carfagna e Gelmini (governo Berlusconi) quando si vociferò di un’intercettazione (mai vista) secondo la quale la Carfagna avrebbe detto di aver fatto una fellatio a Berlusconi: una sciocchezza, che fece il giro del mondo e che si guadagnò pagine soprattutto in Sudamerica; a scriverla fu uno specialista, Fabrizio D'Esposito, che aggiunse che il contenuto hard delle intercettazioni poteva aver spinto Berlusconi a forzare la mano sull’ennesima legge-bavaglio. Ecco, le intercettazioni non esistevano. D’Esposito non le scrisse sul Fatto, ma sul Riformista, poi - dato il curriculum - lo presero subito al Fatto, appena nato.
CAPOLAVORO
E infatti fu poi unaltro, il capolavoro di Marco Travaglio e company: parliamo del caso di malcostume giornalistico più grave e costoso del Dopoguerra, la diffusione della notizia su un’intercettazione in cui Berlusconi definiva la Merkel «culona inchiavabile». Non esisteva. Non è mai esistita. Ma nel settembre 2011 il Fatto mise la frase inesistente nel titolo di prima pagina («Berlusconi ha detto culona alla Merkel») e poi a pagina 3 («Cucù, la Merkel è inchiavabile») e Travaglio scrisse nell'editoriale: «La posizione dell’Italia non migliorerebbe se, per rimediare, Berlusconi dicesse che Merkel è un culetto inchiavabile». Il Fatto indicò anche «un punto preciso dei verbali redatti dalla Guardia di Finanza» e l’ora dell’intercettazione inesistente, «le 11,53 del 5 ottobre 2008». Due giorni dopo, la calunnia-notizia stava facendo il giro del mondo. Il 13 settembre Luca Telese, sul Fatto quotidiano, la considerò assodata, e scrisse delle «gaffe planetarie di Silvio»; poi Stefano Feltri annotò che «l'intercettazione sulla culona Merkel pesa sull’euro». Gli schizzi finirono sul tabloid tedesco Bild e poi su Die Welt, ripresi da Repubblica, e il giro ricominciava. Non sapremo mai quanti miliardi di euro e quanti punti di spread sia costata questa faccenda, sappiamo che l’intercettazione non esisteva. Sappiamo che Il Fatto, ora, ha ancora il coraggio di esistere, che vorrebbe sempre più intercettazioni (esistenti, magari) e anche le dimissioni di Carlo Nordio (per una legge che non ha ancora fatto) e poi sappiamo che, di passaggio, ha messo in piedi una scuola di giornalismo.