L'obsolescenza programmata. La lavastoviglie che si guasta e la devi cambiare: sì, il guaio riguarda solo una componente, magari neanche elettrica, però la casa madre non la produce più e le scorte sono finite e, se non vuoi ritrovarti con montagne di piatti sporchi nel lavello e la vecchia e cara spugna col detersivo, ti tocca comprarne una nuova di zecca. Immatricolata 2023. Oppure lo smartphone, che pure hai acquistato neanche tre anni fa, pagandolo un salasso perché, allora, era l’ultimo modello. Indistruttibile, ti ha detto il commesso al centro commerciale. E infatti non s’è distrutto, neanche hai il vetro ammaccato: però non si aggiorna più. Clicchi sullo store delle app e provi a incrementare il download della nuova versione del sito della banca, niente. Ti esce quell’avviso («Aggiornamento non disponibile per questo device»), ma a te, il sito della banca, come quello della carta di credito, come quello della Asl, servono: altrimenti tanto vale avercelo, il conto corrente digitale. È l’obsolescenza programmata, appunto.
Quella “vita ridotta” per alcuni prodotti, sempre tecnologici, che non è dettata dal caso o dall’incuria o dalla sfortuna, no: viene decisa durante la progettazione (o la costruzione) di frigoriferi, computer, tablet, telefonini, smartwatch, e-reader, forni a microonde, modem, televisori, lampadine eccetera eccetera amen. Una sorta di “data di scadenza”, identica a quella dello yogurt al super, con l’unica differenza che qui, nella stragrande maggioranza dei casi, non c’è nessunissima etichetta che dice da-consumarsi-preferibilmente-entro. Devi calcolare a occhio. E quando sfori il periodo d’utilizzo, basta. Butti tutto e tanti saluti.
NUOVE DISPOSIZIONI - Ma (forse) ancora per poco: la Commissione europea ha, infatti, approvato in questi giorni una proposta di direttiva sulla «responsabilizzazione dei consumatori» e la «transizione verde» che, al netto della terminologia da ecologisti duri e puri, dice proprio questo. Dice che le aziende non potranno più fare i furbetti a spese (propriamente) nostre. Non è ancora fatta perché il testo (che ha incamerato 554 voti a favore, solo diciotto contrari e diciassette astensioni) fa parte del pacchetto “tecnologico” che dovrà passare al vaglio della plenaria a metà giugno, però ci siamo.
E ci siamo nel senso che, con le nuove disposizioni, i produttori e i creatori dei vari oggetti elettronici di cui, oramai, siamo dipendenti non potranno più limitarne l’esistenza causando, chessò, un malfunzionamento prematuro. Vietato. E quando i suddetti oggetti (sempre elettronici e sempre da dipendenza) avran bisogno di parti di ricambio, oppure di accessori, magari anche forniti da aziende terze, che risparmi qualcosina, zitti tutti: si potrà fare. Prendi il caricabatterie, che se non è originale lo smartphone non lo riconosce o funziona a metà o ti si spegne sul più bello. Non più. Per dure ragioni: la prima è che noi comuni mortali i soldi non li troviamo sugli alberi, ma lavoriamo (e spesso tanto) per poterci permettere la playstation ole cuffiette wireless di ultima generazione. La seconda è che questo circolo infinito (compra-guasto-compra) non fa bene neanche all’ambiente.
RIFIUTI ELETTRONICI - Tonnellate, quintali di rifiuti elettronici che poi a smaltire ci pensa Pantalone. (Tra l’altro, parentesi: gli eurodeputati vorrebbero introdurre anche una nuova etichetta nella quale dovranno essere specificati sia i termini della garanzia necessari per legge sia quelli delle eventuali estensioni, in modo che tu hai tutto chiaro fin dalla prima sbirciatina sullo scaffale). Un sondaggio del 2021 promosso da una ditta di device ricondizionati (quelli di seconda mano, per capirci) stima che, durante la vita, ogni italiano spende di media circa 25mila euro comprando, in serie, sedici smartphone, tredici pc portatili, undici televisori, tredici console per videogiochi, undici macchine fotografiche e tredici coppie di casse per l’impianto stereo.
L’obsolescenza programmata (che non è un fenomeno moderno, è nato un secolo fa, nel 1925, quando un cartello di aziende decise, di punto in bianco, che le lampadine non potevano durare più di mille ore) potrebbe avere i mesi contati. Requiem in pacem (nostra). Nella stessa proposta di direttiva Ue, infine, è presente una parte relativa al green-washing, ossia a quelle dichiarazioni (finto) ambientaliste che promettono meraviglie («prodotto 100% naturale» o «biodegradabile» o «neutrale dal punto di vista climatico», qualsiasi cosa voglia dire) ma solo aparole. Poi, nei fatti, o meglio: nelle prove, zero. Non è vero niente, i prodotti in questione inquinano tale e quale agli altri. Si tratta, se non efficacemente documentato, di una mera pubblicità ingannevole che fa leva sulla moda del momento, quell’«ecosostenibile» che muove il mondo, epperò senza riscontri e senza certezze. C’è chi fa il furbo e per una sola parte del prodotto «bio» allarga la “certificazione” a tutta la scatola: no, non si potrà più fare.