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Giampaolo Pansa, Ramelli e le sciocchezze di Capanna: la verità sugli anni di Piombo

di Giampaolo Pansa mercoledì 17 maggio 2023

3' di lettura

Per gentile concessione dell’editore Rizzoli pubblichiamo un estratto del libro «Piombo e sangue. Da piazza Fontana a Marco Biagi: violenza e terrorismo nelle cronache di un grande giornalista» di Giampaolo Pansa, curato da Marco Damilano, che firma anche la postfazione al libro, e Adele Grisendi. Il volume è in libreria da oggi (pp. 396, euro 19)

Nell’autunno 1974 aveva preso la tessera del Fronte della gioventù missino. Non risulta fosse un picchiatore: attaccava manifesti. Al «Molinari» fu presto individuato. Cominciarono a minacciarlo. Un giorno, un suo tema in classe sulla Resistenza finì su daze bao, con accuse pesanti. I gruppetti lo «processarono» in assemblea decretandone l’espulsione dalla scuola. Lui aveva paura, ma volle restare. Una mattina vide scritto sul muro dell’istituto: «Ramelli fascista – sei il primo della lista». A casa arrivarono minacce telefoniche. Suo fratello Luigi, scambiato per lui, fu malmenato. Era il febbraio 1975. Il padre deciso d’iscrivere Sergio a una scuola privata. Ma gli «altri» lo tenevano d’occhio. E decisero di stangarlo. Accadde il giovedì 13 marzo, alle ore 13. Ramelli stava rincasando. Aveva appena chiuso il lucchetto del motorino, all’angolo fra via Amadeo e via Paladini, quando lo aggredirono. Erano in sette. Avevano spranghe lunghe e chiavi inglesi. Ci dettero dentro e gli sfondarono il cranio. Fu operato al Policlinico.


47 GIORNI DI COMA
Cinque ore d’intervento per ricostruirgli una parte della calotta cranica. Sembrò riprendersi, spiccicava qualche parola. Gli chiesero se avesse riconosciuto gli sprangatori, ma rispose di no. Peggiorò di nuovo. Poi la lenta discesa verso il nulla. Un totale di 47 giorni di coma. La morte il 29 aprile 1975. Questa era Milano, allora. Milano di piombo. Piombo delle pallottole e delle spranghe. A pestare, e a uccidere, erano anche i neri. Avevano in San Babila il loro mattatoio. Ma pestava, con furia e metodo, pure l’extrasinistra, spesso sotto l’etichetta ipocrita dei «servizi d’ordine», ferro di lancia dell’«antifascismo militante». Diceva uno slogan: «Hazet 36 – fascista dove sei?». L’Hazet 36 era la chiave inglese preferita. Talvolta veniva usata contro altri rossi. Scrisse la «Rivista Anarchica», parlando della Statale: «La spranga è al potere. Il Movimento studentesco ha organizzato una mini Ghepeu che mette in scena una grottesca riedizione dei metodi staliniani: aggressione fisica e poi la calunnia».

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Dieci anni dopo, seguendo una pista emersa dalle testimonianze di numerosi pentiti, due giudici pensano d’aver scoperto gli assassini di Ramelli nel giro degli ex di Avanguardia operaia, gli ex del servizio d’ordine. Ne hanno mandati in carcere cinque. Altri quattro sono in arresto per un pesante pestaggio in un bar. Qualcuno degli arrestati oggi appartiene a Democrazia proletaria, nata anche da AO. E le reazioni di qualche giornale ci dicono che il tempo non rende saggi.


POLITICA DELLA SPRANGA
«Reporter», erede di mamma «Lotta continua», titola: Fantasmi del passato: arresti in DP per l’antifascismo di dieci anni fa. Non mi stupisco di questo stile ottuso e bugiardo. Mi stupiscono, invece, le reazioni dell’onorevole Mario Capanna, segretario di DP. Lui la verità la conosce. Intendo: non la verità sull’assassinio di Ramelli, ma quella sulla politica della spranga, sulle teste spaccate anche dai «katanga» (N.d.R.: servizio d’ordine del Movimento studentesco) della «sua» Statale. Eppure, ecco Capanna scagliarsi, con una foga da far invidia ai radical-socialisti di Tortora, sul «salto di qualità aberrato nell’uso perverso del pentitismo».

Eccolo gridare: «Vogliamo sapere se in Italia è ancora possibile far lotta politica oppure no». Poi strilla: «Si vogliono criminalizzare circa vent’anni di lotte studentesche e operaie». Quindi diffonde comunicati che parlano di «provocazione politica», di «ventata repressiva» che mette «in gioco l’avvenire della democrazia in Italia». Ma la sciocchezza più grave è questa: «La mobilitazione antifascista di quegli anni è troppo importante per poter essere lasciata stravolgere da un’inchiesta giudiziaria». Caro Capanna, mi aspettavo più onestà intellettuale da te. Qui non è in gioco «il patrimonio politico di milioni di antifascisti», e dunque non metterle mani su questa merce preziosa che non è soltanto tua. E qui non c’è neppure un «fantasma del passato» come finge di credere quel gesuita rosso-garofano di Deaglio. Qui c’è un ragazzo (fascista) che qualcuno ha accoppato, c’è un assassinato (fascista) che attende giustizia. I magistrati di Milano pensano di riuscire a dargliela. Sono sulla strada della verità o no? Io non lo so, Capanna, nemmeno tu. Eppure tu scrivi questi piagnistei penosi, che fanno torto alla tua intelligenza. E allora «scendi», Mario. E pentiti, politicamente, anche tu.
«L’Espresso», ottobre 1985.

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