Il kamasutra indiano prevede da 10 a 64 posizioni sul sesso, il Partito democratico sulle intercettazioni ne prevede invece un numero non calcolabile. Ma l’impossibile è il nostro mestiere. 1) Posizione numero uno: durante il governo Berlusconi sorto nel 2001, mentre dilagavano le intercettazioni sui furbetti del quartierino e sul governatore Antonio Fazio, la sinistra si disse disponibile a una neo-secretazione delle intercettazioni a mezzo delle multe salatissime proposte dal Guardasigilli Roberto Castelli: l’8 agosto 2005, infatti, il diessino Guido Calvi rilasciò un’intervista a Il Giornale in cui denunciava «un vuoto normativo che va colmato al più presto», mentre da capogruppo Ds nella Commissione giustizia si diceva d’accordo con Berlusconi sulla necessità di mettere mano alla normativa pur con una serie di distinguo. La convergenza tra il senatore diessino i sottosegretari Luigi Vitali e Giuseppe Valentino era totale: lo stesso Calvi, nel luglio 2001, aveva presentato un disegno di legge proprio sulla stessa materia (il n. 489) e la proposta di Calvi fu definita dal centrodestra «una buona base di partenza». Era il periodo in cui Piero Fassino denunciava un certo «voyerismo mediatico» e invocava «una normativa più adeguata»: ma poi cambiò tutto di colpo. Vinse Romano Prodi, com’è noto, prima che una serie di accadimenti spianassero la strada alla terza progressiva posizione della sinistra sull’argomento.
2) Siamo agli arresti del portavoce di Gianfranco Fini, Salvo Sottile, e di Vittorio Emanuele di Savoia, alias vallettopoli e calciopoli. Un’orgia di intercettazioni sui giornali. L’allora senatore dell’Unione Antonio Polito propose addirittura una commissione d’inchiesta sulla diffusione selvaggia delle intercettazioni e questo per «sanzionare i giornali» e «limitare lo strumento investigativo in mano ai pm»; l’idea fu sottoscritta, tra molti altri, dai diessini Gavino Angius e Tiziano Treu.
Il problema è che cominciavano a circolare i verbali con le intercettazioni telefoniche tra alcuni parlamentari diessini e alcuni indagati nelle inchieste sulle scalate Antonveneta, Bnl e Rcs. Disse allora il ministro dell’Interno Giuliano Amato (Repubblica, 12 giugno 2007): «Non è possibile che dalle sedi giudiziarie esca tutta questa roba, è una follia tutta italiana». Disse Piero Fassino ai microfoni di Sky Tg24, stesso giorno: «È chiaro che qui si punta a colpire l’onorabilità del partito e di qualcuno di noi». Disse il presidente della Camera Fausto Bertinotti, sempre quel giorno: «C'è un problema in termini nuovi, ci sono distorsioni nel sistema».
3) La terza posizione è la più sostenuta ed entra in scena col ministro della Giustizia Clemente Mastella, quando il 28 luglio 2007 propose un disegno di legge di 15 articoli che sembrava una dichiarazione di guerra. Tra i propositi: multe da 5mila a 60mila euro; divieto totale di pubblicazione degli atti - anche se solo riassunti - sino alla conclusione delle indagini preliminari; fascicolo del pm segretato sino alla sentenza d’appello; limiti temporali alla possibilità d’intercettare. Eccetera. Il 17 aprile 2007 esponenti vari dei Ds, Margherita, Verdi e Rifondazione comunista votarono dunque alla Camera dei deputatila legge Mastella, molto più dura di quella poi concepita in precedenza da Alfano e riproposta dal capogruppo del Pdl in commissione Giustizia: i sì furono 447, i no neanche uno e gli astenuti nove. Il periodo coincide con una nota frase di Massimo D’Alema riportata da Repubblica: «Voi parlate di tremila euro, di cinquemila euro... ma li dobbiamo chiudere, quei giornali... ci sono stati episodi scandalosi in cui materiale senza nessuna attinenza con l’inchiesta è andato a finire sulla stampa. E anch’io ne sono stato vittima». Sarà un’inchiesta della magistratura – strano – a travolgere tutto: una storiaccia infondata per cui a moglie del ministro, Sandra Lonardo, presidente del consiglio regionale della Campania, fu arrestata. Il ministro Mastella si dimise, contribuendo alla caduta del governo Prodi. Nove anni saranno tutti assolti.
4) La quarta posizione è un nulla che ammazzerà la legge. Il provvedimento venne limato e rilimato e divenne lentamente un’altra cosa, ma tra Ds e Pdl in concreto c'era divergenza solo sull'entità di multe e sul periodo di detenzione per chi avesse sgarrato. Le polemiche invece restarono le stesse. Mario Pirani, su Repubblica, si spinse a scrivere: «Se Berlusconi dettava leggi ad personam, qui siamo di fronte a una legge ad personas, intesa cioè nell’interesse della classe politica». S’indignarono il solito Antonio Di Pietro e vari portavoce alla Marco Travaglio, che scrisse così: «Una vasta gamma di comportamenti, pur non costituendo reato, restano riprovevoli o comunque interessanti e devono giungere alla conoscenza dei cittadini». A sinistra, in compenso, l’onorevole Lanfranco Tenaglia della Margherita definì la legge «un punto di equilibrio alto e nobile». Peccato che la legge si arenerà al Senato e resterà lettera morta.
5) La quinta posizione non è dei Ds, ma del Pd: che nel frattempo ha cambiato nome per iniziativa di Walter Veltroni. Fu lui, durante la campagna elettorale del 2008, a riallacciarsi all'abortita legge Mastella auspicando «il divieto assoluto di pubblicazione fino al termine dell’udienza preliminare», con tanto di «sanzioni penali e amministrative molto più severe».
La posizione venne ribadita da Veltroni durante un Porta a Porta del 13 febbraio 2008. Ma la sesta posizione non fece che precedere la settima.
6) L’8 giugno 2008 il Pd si accodò a Di Pietro che a sua volta si era accodato all"Associazione nazionale magistrati. In soldoni: i provvedimenti annunciati erano diventati «gravi e sbagliati» mentre per quanto riguarda la privacy dei cittadini «è responsabilità degli stessi magistrati che le intercettazioni restino segrete». Eppure il programma elettorale del Pd auspicava il divieto di pubblicazione «fino al termine dell’udienza preliminare», oltreché «severe sanzioni penali»
7) La settima posizione è del 2010, ed è genericamente contraria a ogni intervento in tema di intercettazioni: pur riconoscendo, sempre genericamente, l’esistenza del problema. Il fatto che a governare sia Berlusconi rinfocola gli animi: fioccano manifestazioni e addirittura un'assemblea di direttori di giornale. La nuova norma ipotizzata nel giugno 2010 dal Guardasigilli Alfano, in teoria, è assai più permissiva della precedente proposta dal governo Prodi: prevede infatti la pubblicazione degli atti almeno «per riassunto». Ma scoppia l'inferno. Il provvedimento si sfarina lentamente con la penosa connivenza del Pdl. Alfano prevedeva l’impossibilità di pubblicare gli atti, tranne per riassunto, fino al termine delle indagini preliminari. Si ventilò addirittura di arrestare i giornalisti colpevoli. L’ipotesi di Alfano sparì dai radar dopo uno stop del capo dello stato.
8) Infinite altre serie di non-posizioni dopo l’intervento dei «dieci saggi» provenienti dal mondo politico e accademico chiamati dal Capo dello Stato a intervenire anche sulle intercettazioni. I saggi ammettono la necessità di ridurre l'uso delle intercettazioni che devono essere uno strumento di «ricerca della prova» e non del reato: segue silenzio e mugugni piddini con l'accezione di uscite tipo queste: «Il tema delle intercettazioni non è una priorità» (Anna Rossomando, Pd, Commissione giustizia) e «il Pdl vuole arrivare allo scontro». (Felice Casson, senatore Pd). Nulla.
9) A partire dal 2017, dopo i tentativi di Prodi, Berlusconi, Flick, Castelli, Mastella, Alfano e commissioni (qualcosa ci siamo anche persi per strada) arriva il parto elefantiaco della riforma di Andrea Orlando (guardasigilli del governo Gentiloni) che in teoria è ancora in vigore dopo infiniti cambiamenti. Sua frase iniziale: «Bisogna evitare un Grande fratello permanente. L’Italia è l’unico paese al mondo in cui le intercettazioni telefoniche finiscono sui giornali con tanta facilità». Il Fatto Quotidiano titolò in prima pagina «Pd peggio di Berlusconi: bavaglio ai pm». La riforma prevedeva una selezione tra le intercettazioni non penalmente rilevanti da conservare in un archivio, ma poi arrivò la peste grillina ed entrarono in ballo Augusto Bonafede e i trojan nei telefonini, invischiando tutto: il neoministro del governo gialloverde (Movimento 5 stelle - Lega) fermò la riforma Orlando perché «era stata scritta con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici». Si mise in relazione la riforma Orlando col caso Consip. Alla fine una somma di mostruosa riforma Orlando- Bonafede entrò in vigore nel 2020, ma l’uscita dal governo della Lega (neo governo col Pd) riportò a una riforma sbilanciata sull’azione e la discrezionalità del pubblico ministero: ed eravamo fermi lì. Ora è arrivato Carlo Nordio.