Vi è una costante nella vulgata di sinistra che attraversa l’intera storia della Repubblica: il fascismo non può essere considerato un evento storico compiuto e consegnato, al pari di altre pagine del nostro passato, alla ricerca e allo studio poiché, essendo riconducibile alle alterne vicende del capitalismo, è sempre possibile che si ripresenti in tutta la sua brutalità. In tal senso, l’Italia non si libererà mai e in nessun modo del “fascismo eterno”. Di qui la necessità di una continua vigilanza antifascista. Una lettura siffatta del Ventennio ha guadagnato nel discorso pubblico dal Dopo guerra in poi uno spazio non irrilevante al punto da giungere ad accreditare l’antifascismo quale sinonimo di democrazia. Si tratta della più sofisticata azione politico-culturale condotta in prima persona da Palmiro Togliatti. In tal modo, vengono raggiunti due obiettivi. Il primo offre al Partito comunista la possibilità di entrare nell’area della legittimità democratica da cui era escluso per dottrina e collocazione internazionale. Il secondo permette di nascondere una verità storica ovvero che per dirsi democratici occorre essere sia antifascisti che anticomunisti. «L’antifascismo – scrive lo storico Nicola Gallerano – ha costituito uno dei riferimenti privilegiati della strategia del Partito comunista che non a caso lo ha rappresentato come un succedersi di tappe attraverso le quali condurre al socialismo: una variante della via italiana al socialismo».
Della portata politica dell’operazione togliattiana si avvede subito Alcide De Gasperi. «L’antifascismo - scrive lo statista democristiano nel 1944 - è un fenomeno politico contingente che ad un certo punto per il bene e il progresso della nazione sarà superato da nuove solidarietà più inerenti alle correnti essenziali della nostra vita pubblica». La traduzione pratica di tutto questo si ebbe nel maggio 1947, quando il presidente del Consiglio escluse le sinistre dal governo. Pochi giorni dopo Togliatti parlando ai dirigenti del suo partito riprende alcuni passaggi di un discorso tenuto alla Costituente nel febbraio’47in cui afferma senza mezzi termini che «è democratica solo quella maggioranza che corrisponde al blocco di forze di cui fanno parte le sinistre. Soltanto una tale coalizione può essere considerata democratica e legittima».
Insomma, senza la presenza dei comunisti nella maggioranza non vi è democrazia possibile. Infatti, a partire dal maggio’47, la Democrazia Cristiana, secondo la propaganda comunista, si trasforma da partito affidabile con cui collaborare nella «quintessenza del clerico-fascismo». Il resto appartiene alla cronaca del nostro tempo là dove ogni avversario che voglia governare senza compromessi con la sinistra viene, con la complicità dell’establishment culturale, apostrofato come «bandito autentico”(Craxi) o come “incallito fuorilegge» (Berlusconi). Si preferisce l’insulto e la manipolazione della realtà in luogo delle proposte di politica pubblica. Ed è precisamente ciò che sta accadendo da molti mesi al presidente del Consiglio Giorgia Meloni invitata a dichiararsi antifascista un giorno sì e l’altro pure. Aveva ragione Renzo De Felice, quando scriveva che «l’obiettivo di coloro che parlano di democrazia a rischio è quello di prendere voti che non riescono ad ottenere con argomenti politici».