Più dei disegni degli uomini, sono i millimetri che fanno la Storia. Sbagliando l’angolo di tiro di qualche centesimo di grado, il matematico Thomas Matthew Crooks non ha tolto la vita a Donald Trump e gli ha spianato la strada verso la Casa Bianca. È solo l’ultimo beffato per un nonnulla al bivio dei destini possibili. Il vento che devia impercettibilmente il proiettile, un movimento imprevisto del bersaglio, forse un intervento divino (chiedere ad Ali Agca). E la vita di milioni di persone e di generazioni a venire si ridefinisce in un istante. A Benito Mussolini capitò tre volte. Il 7 aprile 1926, anno IV dell’era fascista, esce dal Campidoglio, dove ha inaugurato il congresso internazionale di chirurgia. La cinquantenne irlandese Violet Gibson, mentalmente disturbata, gli spara con la pistola. È una delle liturgie del fascismo a salvarlo. «Fermatosi per salutare romanamente un gruppo di studenti che lo acclamavano», racconta Renzo De Felice, «nell’alzare il braccio nel saluto tirò indietro il capo e ciò lo salvò: il proiettile lo ferì infatti solo superficialmente al naso». Il Fato, quel giorno, è dalla parte del duce.
Lo è pure l’11 settembre dello stesso anno, quando la bomba lanciata a Porta Pia dall’anarchico Gino Lucetti sbatte sulla parte superiore dello sportello della vettura in cui viaggia Mussolini ed esplode a terra, lasciando l’occupante illeso. E lo è nuovamente il 31 ottobre, quando lo salva dal proiettile del quindicenne Anteo Zamboni. Succede a Bologna, incrocio tra via Rizzoli e via Indipendenza. «Dalla folla che si assiepava ai lati della strada fu sparato contro Mussolini un colpo di pistola: il proiettile sfiorò però solo il bersaglio, lacerando la fascia dell’ordine mauriziano che Mussolini portava al petto», scrive sempre De Felice. Millimetri, ancora una volta. E la leggenda dell’uomo della Provvidenza che si consolida.
Cosa sarebbe successo altrimenti all’Italia, al fascismo, agli ebrei italiani, all’Etiopia e alle nazioni che tredici anni dopo sarebbero entrate nella Seconda Guerra mondiale è argomento da romanzo ucronico. L’unica certezza è che le loro storie sarebbero state molto diverse da quelle che conosciamo, giacché nessuno dei sottoposti di Mussolini, né Italo Balbo né altri, aveva un carisma e una capacità di controllare le masse paragonabili a quelli del duce. Distanze piccole come unghie tornano a decidere le sorti degli italiani nell’immediato dopoguerra. È il 14 luglio 1948, tre mesi dopo le prime elezioni legislative della repubblica, vinte dalla Dc contro il Fronte popolare. Mancano pochi minuti a mezzogiorno e Palmiro Togliatti, segretario del Pci, è appena uscito dal palazzo di Montecitorio. Lo studente Antonio Pallante, anticomunista vicino ai movimenti qualunquisti, gli spara tre colpi di pistola. Due entrano nei polmoni del Migliore, che rischierà di morire dissanguato. Uno lo colpisce alla nuca, ma non penetra nella scatola cranica. L’edizione straordinaria dell’Unità denuncia «la delittuosa atmosfera di provocazione creata da De Gasperi e Scelba». Si sparge la voce che Togliatti sia morto, ucciso dai fascisti.
In questo caso, un’idea di cosa sarebbe accaduto se il lancio dei dadi avesse dato un risultato diverso l’abbiamo: si chiama guerra civile. Le fabbriche entrarono in sciopero prima che lo proclamasse la Cgil e lo proseguirono quando Giuseppe Di Vittorio lo dichiarò cessato. Gli stabilimenti furono occupati, i treni bloccati, l’amministratore delegato della Fiat, Vittorio Valletta, sequestrato nel suo ufficio. Pistole e fucili degli ex partigiani rossi erano ancora ben oliati e funzionanti. Fu necessario mobilitare l’esercito. Qualcosa fece Gino Bartali, vincendo il Tour de France il 15 luglio. Moltissimo fece il chirurgo Pietro Valdoni, che salvò il capo del Pci in sala operatoria. Finiti gli scontri si contarono trenta morti e ottocento feriti: quanto basta per avere un’idea dell’abisso che era pronto a spalancarsi.
La parabola del comunismo incrocia le traiettorie dei proiettili altre due volte. Ronald Reagan e Karol Wojtyla faranno cadere l’impero sovietico, ma nel 1981 ancora non lo sanno. Il 30 marzo il presidente degli Stati Uniti, in carica da due mesi, è sulla Connecticut Avenue di Washington mentre saluta alcuni connazionali, circondato dalla scorta. Un ventiseienne texano, John Hinckley Jr., per impressionare l’attrice Jodie Foster, di cui si è innamorato, scarica sette pallottole su Reagan e i suoi uomini. Una si ferma a 25 millimetri dal cuore del presidente. Che resta lucido quanto basta per regalare ai medici che stanno per operarlo una delle sue battute migliori: «Spero siate tutti repubblicani». Si rimetterà e otterrà un secondo mandato. Durante il quale la «dottrina Reagan» ribalterà i rapporti di forza militare con l’Unione sovietica. All’epoca, nell’amministrazione americana, lui era l’unico convinto che il comunismo e l’Urss non dovessero essere «contenuti», bensì sconfitti, perché questo era possibile. Nessun altro avrebbe avuto la forza politica e morale per andare a Berlino, il 12 giugno del 1987, a dire: «Mister Gorbaciov, abbatta questo muro!». Il simbolo dell’oppressione che sarebbe crollato due anni dopo, anche per le picconate del papa polacco.
Eppure Wojtyla doveva essere morto il 13 maggio del 1981, in piazza san Pietro. Due colpi da 9 millimetri sparati da una Parabellum lo colpiscono all’addome. Quando arriva all’ospedale Gemelli ha perso tre litri di sangue, gli viene data l’estrema unzione. Lo salvano i medici, e il papa attribuirà parte del loro miracolo alla Madonna di Fatima. Chi proprio non si spiega come abbia fatto il pontefice a sopravvivere è il suo attentatore. «Lo so di aver mirato come dovevo. So anche che il proiettile era devastante, mortale. Ma allora perché lei non è morto?», gli domanderà Ali Agca quando verrà a visitarlo in cella, come ha raccontato il vaticanista Gian Franco Svidercoschi.
«Era questo che lo sconvolgeva: il dover ammettere che c’era stato Qualcuno o Qualcosa che gli aveva mandato all’aria il colpo», dirà Wojtyla a Indro Montanelli. Se Giovanni Paolo II fosse morto quel giorno si sarebbe tenuto un conclave per eleggere un altro papa. Se quello squilibrato avesse ammazzato Reagan, al suo posto sarebbe subentrato il vicepresidente George Bush. Ma nessun cardinale era come Wojtyla e conosceva il comunismo come lui. E Bush non possedeva la determinazione di Reagan e tantomeno la sua oratoria: ci vuole un’overdose di fantasia per immaginarlo mentre strapazza il segretario del Pcus davanti alla Porta di Brandeburgo. Quando, come e a quale prezzo sarebbe finito il comunismo, se i due non fossero sopravvissuti a quegli attentati? E cosa sarebbero ora gli Stati Uniti se il proiettile di Crooks avesse colpito Trump un centimetro più in là? Una nuova guerra civile americana è solo un’ipotesi da narrativa fantastica?