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Il Pd ruba la medaglia d'oro all'Italvolley

di Daniele Capezzone lunedì 12 agosto 2024

4' di lettura

Quelli del Pd non vincono un’elezione politica dal lontano 2006, ma in compenso (sa- rà stata una botta di caldo? Un devastante colpo di calore?) devono essersi autocon- vinti di aver conquistato l'oro la medaglia d’oro olimpica della pallavolo. Ieri lo spettacolo è stato abbastanza surreale: le ragazze di Julio Velasco non avevano ancora terminato l’ultima schiacciata e già sulle agenzie e sui canali social si assiste- va a un autentico diluvio di uscite di espo- nenti della sinistra. E peraltro, anche a match concluso, le atlete, pur giustamente entusiaste, sono state le più sobrie, le più equilibrate, in una parola le più sportive.

Tutto intorno a loro, invece, è partito il circo del tentato uso politico della vittoria azzurra. A parte la gara per l’intervista-lam- po ai microfoni Rai, vinta secondo tradizio- ne dallo specialista Giovanni Malagò, la sce- na più imbarazzante è venuta da sinistra: più pallonari che palleggiatori, più strumen- talizzatori che schiacciatori.

In ordine sparso, si sono segnalati la Schlein (che era stata muta per quasi tutta la kermesse olimpica, e che ieri ha improvvisamente ritrovato la voce e i giga per twittare), un accaldato e accalorato Sandro Ruotolo, e poi – in ordine sparso, tra i cespugli alleati – una compilation di dichiarazioni confuse e sudaticce dei vari Conte-Bonelli-Magi, non senza il contorno di giornalisti ancora più sudi giri, tra i quali l’eurolirico Federico Fubini. E come mai tutta questa furia dichiaratoria, come mai questa spinta ossessivo-compulsiva a occuparsi di pallavolo? Elementare, Watson.

C’era da portare a termine una doppia operazione prevedibilissima: per un verso, cercare di cantare la canzoncina dell’Italia multietnica (attribuendo subliminalmente alla destra una inesistente posizione ostile); per altro verso, si trattava di bastonare il solito Roberto Vannacci, il quale – va detto – se l’era cercata da un anno inseguendo una evitabilissima polemica con Paola Egonu. Lui, il generale neo-onorevole, ieri ha cercato di prevenire le mazzate da un lato esultando tra i primi, e dall’altro cercando di spostare l’attenzione sul caos del pugilato. E tuttavia l’operazione – com’era prevedibile – non gli è riuscita. Ma come ormai accade da un anno, se desta perplessità quella che potremmo chiamare la “destra vannacciana”, è invece addirittura patetica la “sinistra rinvannaccita”, cioè ossessionata dal militare.

Solo chi è vittima di una potente patologia di tipo ossessivo-compulsivo, infatti, dopo una vittoria spettacolare come quella delle nostre atlete, poteva mettersi a pensare a Vannacci: e invece questo è esattamente ciò che hanno fatto i nostri compagni, scattando come molle. Diciamocelo francamente: a sinistra non importa niente della Egonu come campionessa, o della tecnica delle altre atlete, o della tattica escogitata da Velasco. Ai compagni interessa solo avere una carta in più (nella loro testa: una figurina da usare adesso e poi da gettare via tra qualche tempo) da giocare nella polemica velenosa contro la destra. E il fatto che – da mesi – Vannacci sia poco furbescamente caduto nel trappolone non cambia le cose: non rende cioè meno ridicolo il fatto che per la sinistra nulla abbia valore in sé, ma tutto debba diventare materia di strumentalizzazione. La verità è che i nostri compagni avranno forse cambiato modo di vestire (adesso indossano delle impeccabili camicie button-down) ma non hanno modificato la loro vecchissima mentalità, che li porta a concepire tutto in termini sempre e solo “politici”.

Lo sport? È un “fatto politico”. E così ogni altro aspetto della vita: in passato tentavano di ricondurre ogni cosa all’ideologia; ora, essendo crollata l’antica impalcatura ideologica, rimane il più modesto tentativo di piegare qualsiasi evento alla polemica velenosa contro gli altri, alla fascistizzazione del nemico (che spesso – ahinoi – ci casca con tutte le scarpe). E allora, una volta di più, si rende indispensabile il tradizionale antidoto liberale: ridurre il perimetro della politica, lo spazio delle cose di cui stato e partiti intendono occuparsi. Direbbero gli inglesi: they run governs, not our lives, cioè guidano i governi, non le nostre vite. A ben vedere, il vero meccanismo per difenderci sta proprio qui: assumere come spartiacque culturale e politico l’allargamento della sfera privata, e la conseguente restrizione della sfera pubblica e collettiva, che invece i compagni vorrebbero dilatare a dismisura. Perfino stabilendo – loro – per chi abbiamo il diritto di tifare noi “reprobi” di destra, e chi invece è esclusivo appannaggio loro, che si ritengono per definizione “buoni e giusti”, oltre che titolati a rilasciare e ritirare “patenti” di accettabilità morale e sociale. Ecco, respingiamo queste sciocchezze, e non dimentichiamo di prenderli adeguatamente in giro. Non si meritano altro: boriosi e vanitosi come sono. 

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