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Renzi finge di aver vinto e i compagni lo inchiodano

Matteo Renzi visto da Benny

Lucia Esposito
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«Di fronte a qualche Solone del giorno dopo che parla di affluenza in modo strumentale, ricordo che da febbraio a oggi il Pd ha riportato a casa quattro regioni che erano a destra». E a chi inserisce lo scontro con il sindacato tra le ragioni della bassa affluenza, ha risposto che «andiamo avanti più di prima perché l'Italia non può aspettare l'analisi interessata di chi non ha mai vinto». Le elezioni «servono a indicare chi governa, non a contare quanti votano». Quanto alla Lega, «chi va bene o chi va male nella destra, sono problemi loro. Non mi interessa. Se ho paura che Berlusconi faccia saltare tutto? E cosa può fare? Se lo fa, si va al voto». Queste le riflessioni che Matteo Renzi ha fatto coi suoi collaboratori, di ritorno da Vienna, il giorno dopo le elezioni in Emilia Romagna e Calabria, con la vittoria dei due candidati del Pd, ma anche il crollo dell'affluenza. Del resto la linea l'aveva già dettata l'altra notte, all'una e qualche minuto, con un tweet a sorpresa: «Male l'affluenza, bene il risultato. Due a zero netto con quattro regioni su quattro strappate alla destra in nove mesi. La Lega asfalta Forza Italia e Grillo. Pd sopra il 40 per cento». E proprio attorno a quel verbo, «asfalta», senza pietà nei confronti del partito con cui ha stretto il Patto del Nazareno, si nasconde un'altra riflessione che Renzi va facendo. Non si fida più di Silvio Berlusconi. Un po' perché pensa non controlli più Forza Italia. Un po' perché non gli va giù la linea zig-zagante di questi mesi sulle riforme. «Non si capisce se là dentro comanda Berlusconi o Brunetta», ripete. Per questo ha colto al volo la batosta elettorale presa ieri da Forza Italia, con la Lega che l'ha doppiata, per mandare un messaggio al leader del centrodestra: caro Silvio, fa poco il furbo, perché se salta il patto del Nazareno, per te è la fine. L'alternativa, infatti, è votare in primavera con il Consultellum. «Noi siamo pronti, ma loro non mi pare». Vero è che l'aggressività del premier nasconde anche una paura. Cioè che non si riesca ad approvare l'Italicum entro l'anno. Tanto più che dopo la debàcle in Emilia e in Calabria, Forza Italia non ha interesse a votare il premio alla lista. Ma a Palazzo Chigi non ci si preoccupa. «Se Berlusconi non ci sta, ce lo approviamo a maggioranza». Anche se a sentire i senatori, la situazione è un un po' più complicata. Si vedrà. Intanto ieri, per Renzi, è stata la giornata del “2 a 0”. «Oggi», ha detto un po' stizzito in una conferenza stampa da Vienna, «una persona normale dovrebbe essere felice: un risultato importante in Emilia Romagna e in Calabria, che da oggi cambiano pagina». Poca gente è andata al voto? «È un elemento che deve preoccupare, ma che è secondario». Piuttosto, il risultato dovrebbe far riflettere «chi ha contestato le riforme». Di nuovo, Forza Italia. La vittoria, aveva scritto in un altro tweet mattutino, è «netta», «massimo rispetto per chi vuole chiacchierare. Noi nel frattempo cambiamo l'Italia». Quanto a Matteo Salvini che gli aveva detto di prepararsi perché la Lega «sta arrivando», in un'intervista al Gr1 gli ha risposto che «noi lo aspetteremo». E a proposito di cambiare l'Italia, uno dei deputati più vicini al premier, il toscano Davide Parrini, ieri ha firmato una proposta di legge per ridurre le regioni da 20 a 12. In tutt'altra direzione va la minoranza del Pd, che invece cavalca il crollo dell'affluenza. Se per Francesco Boccia «abbiamo perso tutti», per il bersaniano Alfredo D'Attorre «c'è una vasta area di sinistra che non si riconosce nell'indirizzo che il partito ha preso». Gianni Cuperlo, in Transatlantico, affonda il coltello: «C'è in atto una grande opera di cambiamento, ma fa fatica a passare nel Paese. E questa idea che i corpi intermedi non contano, qualche problema lo provoca». Per Davide Zoggia le ragioni principali dell'astensione sono due: «un giudizio negativo sull'azione del governo» e «un partito che non si sente coinvolto». Lo stesso pensa Stefano Fassina, secondo cui è un chiaro «messaggio al governo». La risposta dei renziani è affidata a Ernesto Carbone che, replicando a Miguel Gotor («Houston abbiamo un problema», aveva scherzato), risponde così: «Che per Gotor sia un problema vincere è un fatto che conoscevamo. Non è cattiveria, è che non è abituato». Non sanno cos'è la vittoria. Vero è che una parte del Pd, sia pure minoritaria, è ogni giorno più lontana. E il crollo della partecipazione in Emilia è come li avesse rincuorati sul fatto che il “popolo” di sinistra non sta più con Renzi. A cosa porterà, è presto dirlo. «Non abbiamo fretta», dice uno di loro. Intanto oggi una trentina di loro voterà contro il Jobs Act. Renzi, in ogni caso, non sembra spaventato. «Se qualcuno se ne va, non è un dramma», dice un suo fedelissimo. E anticipando i critici, ha convocato lunedì la direzione per un'analisi del voto. Elisa Calessi  

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