Fabrizio Cicchitto su Luigi Di Maio: per arrivare in alto si è affidato alla vecchia volpe Dc, Vincenzo Scotti
Che in Italia sia una costante storica la tendenza a correre in soccorso al vincitore è dimostrato da mille esempi. L'altra costante è la velocità nel cambiamento sul terreno della esaltazione o della demonizzazione di un «leader» o di un «capo»: ancora nel marzo del 1945 Mussolini facendo un comizio al lirico di Milano riempiva anche la piazza circostante, poco tempo dopo, il 28 aprile, sappiamo cosa è successo a piazzale Loreto. Le stesse cose si stanno ripetendo oggi in Italia, fortunatamente in termini meno cruenti. Sul piano del consenso elettorale il Pd di Renzi è passato dal 40% delle elezioni europee nel maggio del 2014 al 18% del marzo del 2018. Sul terreno, poi, del consenso individuale ieri Renzi aveva l'appoggio entusiasta del presidente della Confindustria Boccia e dell'amministratore delegato di Fca Marchionne, che adesso invece esprimono tutta la loro attenzione positiva a Di Maio. Addirittura solo poche settimane fa Eugenio Scalfari aveva affermato che tra Berlusconi e Di Maio avrebbe votato Berlusconi, ma dopo il risultato elettorale ha scoperto che il Movimento 5 Stelle «è il grande partito della sinistra moderna \[…\] io ho sempre votato a sinistra e, se lui diventa la sinistra italiana, voterò per questo partito». CENTRISTI ADDIO Ciò detto per quello che riguarda il ricorrente opportunismo dell'establishment di questo Paese, vale la pena mettere a fuoco alcune caratteristiche di uno dei due tsunami che hanno sconvolto l'Italia (l'altro è quello leghista). Lo tsunami grillino esplode specialmente al Sud ed esprime una rabbia sociale che si intreccia anche con un furente sentimento anticasta. È materia di riflessione che questo voto del Sud ha spazzato via in primo luogo i centristi meridionali variamente collocati che tutti gli osservatori pensavano fossero sempre dei grandi portatori di voti. Invece il voto grillino, che è stato un voto di opinione per nulla attratto dai singoli candidati, ha spazzato via in primo luogo proprio quelle personalità e quelle famiglie politiche di centro nate nella prima repubblica e sopravvissute nella seconda. Il disastro di Noi con l'Italia, la cancellazione di Civica Popolare e la stessa sconfitta di Forza Italia in Campania e in Puglia derivano anche da questo elemento di fondo. La ripresa economica è arrivata al Nord e non al Sud e allora la rabbia sociale ha travolto il clientelismo politico organizzato, che non ha più risorse significativa da distribuire e ha trovato una risposta nella proposta globale del reddito di cittadinanza combinata con il rifiuto della «casta politica» in tutte le sue espressioni, per cui anche l'estremismo di sinistra di Leu ha fatto flop. Infatti tutto ciò è accompagnato anche dal rifiuto di ogni approccio culturale alla politica. Il punto è che nel momento in cui questa contestazione globale si è tradotta nell'elezione di centinaia di parlamentari, ma non nella conquista della maggioranza, per Di Maio e il gruppo dirigente M5S si pongono due problemi giganteschi: trovare uno sbocco immediato di governo e come realizzare l'idea forte su cui sono state vinte le elezioni. Entrambe le cose appaiono di difficilissima realizzazione, ma per Di Maio, Casaleggio jr. e gli altri è vitale arrivare al governo in tempi brevi perché altrimenti se questa forza politico-elettorale coagulata in termini di opinione e di consenso, ma non di un partito strutturato sul terreno culturale e organizzativo non trova uno sbocco in tempi brevi essa rischia di implodere e di rivoltarsi contro gli apprendisti stregoni che l'hanno suscitata. Ma è possibile un governo incardinato sul M5S e che sia in grado di realizzare l'idea forza del Movimento, che secondo Cottarelli costa tra gli 80 e i 100 miliardi? Allo stato l'operazione appare difficilissima. CON LA NATO E L'EUROPA Il segno che il gruppo dirigente del M5S, malgrado la sua originaria impostazione fondata sul vaffa, è alla ricerca in tempi rapidi di uno sbocco di governo, è offerta dal cambio di passo che Di Maio ha adottato da alcuni mesi a questa parte: non più uscita dalla Nato e dall'Europa e opzione guevarista, ma una grande diplomatizzazione della politica messa in evidenza dal confronto rispettoso ma pressante aperto nei confronti del Quirinale e dal pressing per la convergenza con altre forze politiche. Sembra quasi che il gruppo dirigente del M5S reputi così vitale per il presente e il futuro del Movimento arrivare al governo che si serva della consulenza di qualche grande vecchio democristiano della prima repubblica per fare le mosse giuste per sedurre l'establishment e penetrare in quei palazzi del potere contro cui fino a poco tempo fa ha sparato a palle incatenate. Il nome che mi sento di fare, osservando le mosse di Di Maio e i nomi dei candidati ministri passati dalla sua università, è quello di Vincenzo Scotti, e credo propria ci siano le sue impronte digitali. Solo che, a parte i nodi programmatici di non poco conto, il M5S ha vinto solo parzialmente le elezioni, ha fatto un grande exploit ma non ha la maggioranza, cosa che in una democrazia parlamentare costituisce un enorme problema se non si trova un alleato politico molto consistente. Nel nostro caso il Pd o la Lega. di Fabrizio Cicchitto