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Stefano Buffagni, il grillino silenzioso diventato uomo di potere: ecco chi c'è dietro di lui

Davide Locano
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Stefano Buffagni parla poco ma non si ferma mai. Mentre i suoi colleghi grillini fanno la lotta nel fango per disputarsi l' osso quotidiano, lui ha già raccolto la carne viva per trasformarla in mattoncini di potere: nomine nelle grandi aziende, fiduciari nei consigli d' amministrazione bancari, relazioni internazionali con fondi d' investimento, cooperazione con i più importanti centri universitari. Può guardare avanti, Buffagni, perché è uno dei pochi dirigenti pentastellati con un passato vero alle spalle: trentaseienne milanese, commercialista e revisore legale dei conti dopo una laurea alla Cattolica in Economia e management per l' impresa. Nel 2010 conosce un altro concretissimo milanese travestito da idealista, Gianroberto Casaleggio, e scocca la scintilla. Tempo tre anni e Stefano entra in Consiglio regionale dove resta fino a marzo 2018, quando nasce la maggioranza gialloverde e lui diventa sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con una delega agli Affari regionali sotto la quale cova il ruolo del tessitore universale. Se oggi nel MoVimento Cinque stelle e nel governo non si muove foglia che lui non abbia prima soppesato, la chiave sta in quel lustro ai piani alti della Regione Lombardia: è lì che Buffagni entra negli ingranaggi dell' amministrazione e stabilisce pesanti rapporti con gli assi di denari. Leggi anche: Massimo Bugani lo scarica, Luigi Di Maio si vendica Ed è sempre lì che familiarizza con i leghisti, un po' facendo opposizione al partito che fu di Roberto Maroni e un po' studiandone la psicologia e la capacità di penetrazione nei posti chiave da cui si gestisce il consenso popolare. Oggi quella classe dirigente padana occupa buona parte dei seggi parlamentari sovranisti, il che facilita non poco le trattative ai tavoli più sensibili in cui Buffagni siede con i rivali-sodali lombardi Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia o con il più ruspante Claudio Durigon da Latina. Sono loro a dover tradurre le mutevoli sparate dei grandi leader in scelte di precisione o in provvedimenti a prova di uffici legali e ricorsi giudiziari. «PASSATEGLI TUTTO» Dalla Rai alla Cassa depositi e prestiti (anno trascorso), dall' Agcom all' Autorità sulla Privacy (in queste ore) fino alle gigantesche partecipate (Eni, Enel, Leonardo, Enav e Poste tra fine anno e metà 2020), non esiste dossier strategico che non transiti sulla scrivania dell' alfabetizzato e schivo Buffagni, al quale Luigi Di Maio infligge costantemente il defatigante compito di "bollinare" le sue velleità rivoluzionarie nel tentativo (spesso vano) di farne più realistiche riforme. È materia di questi giorni, per esempio, la necessità di vidimare bozze e decreti relativi alle telecomunicazioni o alle concessioni autostradali, ma pure alle licenze balneari sulle quali incombono gli effetti slabbranti della direttiva Bolkestein. Nel Mise, dentro l' ufficio del ministro Di Maio, il ritornello ascoltato dai presenti alle riunioni ristrette è sempre quello: passate tutto a Buffagni e aspettate la luce verde. Luce che peraltro non sempre arriva e anzi, a dirla tutta, la quantità delle fantasticherie gialloverdi irrealizzabili sarebbe assai più elevata se non ci fosse questo filtro di qualità parallelamente offerto da Giorgetti e Garavaglia sulla sponda leghista. A proposito di Garavaglia: quando a metà luglio il viceministro dell' Economia è stato assolto dall' accusa di turbativa d' asta, il primo e unico pentastellato a rilasciare un comunicato di soddisfatta felicitazione indovinate chi è stato? Risposta esatta: Buffagni, anche se poi Salvini pur di polemizzare ha fatto finta di non accorgersene. ALL'ATTACCO Perché Buffagni sarà pure un introflesso che rumina pane e potere, ma dovendo scegliere tra il catenaccio e il calcio totale lui preferisce attaccare. Nei dibattiti pubblici soffre la necessità di essere reticente sulle pratiche inevase da Di Maio (Alitalia su tutte); sembra invece divertirsi quando può pizzicare Giovanni Tria dandogli del ricattatore o dell' avulso dagli accordi del contratto di governo, o quando è chiamato a scartavetrare l' egocentrismo salviniano: nel febbraio scorso il vicepremier ha ritirato una sua querela risalente al 2016 e causata da un' invettiva di Buffagni contro la «ragnatela leghista» e il «sistema marcio che sta infettando le istituzioni lombarde». Pace fatta ma simpatia zero, fra loro due; anche perché Stefano continua a prediligere l' ala nordista della Lega che fu di Umberto Bossi, convinto di avere ormai compreso lo schema dei padani: urlano, insultano e minacciano ma lo fanno sempre per "trovare la quadra", prima di rompere davvero ci pensano e ci ripensano Ed è appunto nei momenti peggiori, quando i rapporti tra Di Maio e Salvini si fanno più cruenti, che la banda grillina si affida alla tela del sottogoverno (dove si annida il potere reale) intessuta dal sottosegretario con delega alle regioni e alla concordia, o se volete alla pazienza. OLTRE IL GRILLISMO Obiettano le malelingue: ma allora uno come Buffagni che ci sta a fare nello stesso gruppo del bibitaro di Pomigliano, del guevarista Alessandro Di Battista e dell' amletico Davide Casaleggio con tutto il corteggio d' inconcludenti al seguito? Per non dire di Roberto Fico, il presidente della Camera che il 2 giugno scorso ha avuto la geniale idea di dedicare la festa della Repubblica ai migranti e ai rom, guadagnandosi proprio da Buffagni la qualifica di «polemista suicida». E in effetti l' hanno già sospettato d' intelligenza con il Deep State, lo Stato profondo e invisibile, per via di quel suo "Progetto Italia 2030" che secondo i retropensieri più diffidenti sarà una fondazione personale popolata da gente così ricca e influente da garantirgli una doviziosa sopravvivenza alla stagione delle Cinque stelle cadenti. Le cose, suggeriscono gli inquilini del Deep State, stanno in modo diverso. Buffagni sta cercando di attivare una "narrazione" internazionale più favorevole all' Italia, viaggia molto tra Roma e Londra oppure oltreoceano (a settembre sarà in Canada) per accreditarci agli occhi degli investitori stranieri come un popolo di attraenti e coscienziosi risparmiatori. Insomma fa quello che abbiamo visto fare a Giorgetti e Salvini, però con la discrezione operosa indispensabile per disincagliarsi dal complottismo grillino. E la fondazione cucita su misura? Non esiste e in ogni caso ne sapremo di più a novembre, quando Buffagni riunirà a Roma gli Stati Generali dei campioni nazionali, per costruire una cornice statale nella quale i privati saranno chiamati a collaborare nell' interesse nazionale. ECCELLENZE TRICOLORI Secondo i piani di Buffagni Eni, Enel, Snam, Italgas, Leonardo e le altre eccellenze tricolori saranno invitate a discutere - se possibile almeno una volta all' anno - di strategie comuni da elaborare sui temi dell' innovazione, della competitività, dell' economia circolare e delle dinamiche demografiche. Un vasto programma da rafforzare con l' esperienza delle banche di sistema e il contrafforte degli studi commissionati alle migliori università pubbliche e no: dalla Bocconi al Politecnico di Bari passando per la Cattolica, i Politecnici di Milano e Torino, la Luiss e la Sapienza, la Federico II di Napoli. Obiettivo, in estrema sintesi: coordinarsi per produrre ricchezza anziché concimare la miseria con la beneficenza di Stato. Poco prima che Di Maio celebrasse l' abolizione della povertà, un amico di Buffagni sosteneva di avergli sentito pronunciare le seguenti parole: i nostri elettori non ci uccideranno se non elargiremo subito il reddito di cittadinanza, ma ci volteranno le spalle se non daremo l' idea di essere diventati una forza matura e di governo. Lui non confermerà nemmeno sotto tortura. Però aveva ragione. di Alessandro Giuli

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