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Pd, la trappola della minoranza per fermare riforma del Lavoro e legge di stabilità

di Andrea Tempestini domenica 28 settembre 2014

3' di lettura

Il Jobs Act dovrà farsi strada nella giungla di 700 emendamenti, di cui 40 a firma Pd. Ma a preoccupare di più il governo sono sette proposte di modifica. Quelle presentate ieri dalla minoranza del Pd e firmate da un gruppo di senatori che va dai 28 ai 38. Un’area assolutamente in grado di tenere in scacco la maggioranza, che al Senato può contare solo su 6 voti di scarto. Ma la battaglia della minoranza del Pd non finisce qui. Se il primo passo è costringere il governo a modificare pesantemente la delega, il secondo, persino più pericoloso per Matteo Renzi, punta alla legge di stabilità. Quella che dovrà essere presentata dal governo entro il 25 ottobre. Non a caso si è parlato di questa nella riunione di Area riformista, la componente bersaniana, che si è tenuta ieri sera. A porre in relazione i due provvedimenti è stato Guglielmo Epifani, aprendo i lavori. E sempre l’ex segretario si è detto preoccupato perché «non basterà l’intervento della Banca centrale europea». Il punto si era fatto ieri mattina, in una sorta di “caminetto” che ha riunito le varie anime della minoranza interna. C’erano Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Pippo Civati, Stefano Fassina, Roberto Speranza. Si è deciso innanzitutto di dare battaglia sul Jobs Act attraverso i sette emendamenti. Si è chiesto a Renzi di mettere a punto un documento, in vista della direzione, che contenga le proposte della minoranza. Ma da parte del premier non è arrivata nessuna risposta. Il primo emendamento, il più pericoloso, prevede che il governo non possa disciplinare i licenziamenti, prima di aver introdotto, con i decreti, il sussidio di disoccupazione e il riordino delle politiche per l’impiego. Che sono la parte costosa della riforma. In pratica, si obbliga l’esecutivo a trovare le coperture economiche per la nuova Aspi prima di toccare l’articolo 18. Per dirla con un bersaniano, «prima vedere cammello». Un altro emendamento vincola il governo a una «semplificazione» delle tipologie contrattuali. Un altro stabilisce che «le tutele del contratto a tempo indeterminato» devono valere dal «quarto anno di assunzione»: in pratica l’articolo 18 sarebbe sospeso solo per i primi tre anni. Si chiede che la revisione delle «mansioni» sia legata a «parametri oggettivi» e che i «controlli tecnologici» valgano solo «negli impianti» dove si lavora. Infine che l’uso dei voucher non superi il limite dei 5mila euro. Il vero bersaglio, però, è la legge di stabilità, l’ex finanziaria. «Il punto», spiega un bersaniano, «è capire dove sono i soldi per i centri per l’impiego, per il sussidio. E questo si capirà solo con la legge di stabilità. Qui Renzi non può barare». Di più: i fedelissimi dell’ex segretario sono convinti che «Renzi sta sollevando questo polverone per coprire il fatto che non sa dove trovare i 20 miliardi per la legge di stabilità». Da parte renziana, intanto, si tiene il punto. È vero che il ministro Poletti, incontrando i senatori del Pd, si è detto disponibile a discutere di tutto. Ma i fedelissimi del premier non sembrano disposti a concedere molto. «Il problema», rifetteva David Ermini, «è della minoranza. In direzione ci sarà un voto. Poi starà a loro decidere. Non vogliono votare la delega? Si va a votare. Ma stavolta senza listini, con il Consultellum». Quanto a Rosy Bindi, «mi ricorda quelle donne di mezza età che mettono la minigonna. C’è un tempo per tutto e per tutti. A un certo punto bisogna prenderne atto, se no si è ridicoli». di Elisa Calessi

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