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Luciana Lamorgese "cacciata dal Viminale". Una slavina politica, filtrano voci sul Quirinale

Lorenzo Mottola
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La storia sembra scritta per un film di Checco Zalone: gruppi di migranti venivano arruolati nei pressi di una baraccopoli in Puglia per andare a lavorare nei campi di proprietà di una delle massime autorità italiane per la gestione dell'immigrazione. Le accuse rivolte alla moglie del prefetto Michele Di Bari, che hanno portato alle sue immediate dimissioni, sono a dir poco imbarazzanti, anche se ovviamente restano tutte da provare. Ci penserà la magistratura, sperando che per evadere la pratica non ci voglia il solito decennio. La politica in questo senso è più veloce: il processo è già partito.

Nei corridoi del Viminale si racconta di una Luciana Lamorgese a dir poco furiosa per una vicenda che riapre l'assalto al suo ministero, già sotto assedio per una lunga lista di figuracce, dai rave party con droga a fiumi e scorta della polizia alla mostruosa impennata di sbarchi sulle coste italiane. La difesa degli sponsor del ministro verte sul fatto che Di Bari non è arrivato al Viminale per ordine dell'attuale gestione. Si trova lì dall'epoca Salvini. Una bella presa di distanze che, tuttavia, nasconde una storia un po' più complessa.

 

 

 

Il prefetto è arrivato a Roma dopo aver lavorato per anni a Reggio Calabria, dove è tutt' oggi ricordato per aver combattuto Mimmo Lucano e aver ordinato una lunga serie di controlli per far luce sul suo celebre "modello Riace". Da lì, nell'anno di Salvini al governo, viene trasferito e messo a capo del dipartimento immigrazione. Poco dopo cade l'alleanza giallo-verde e, con il varo del Conte-bis, il dottor Di Bari si adatta e sposa la causa dell'attuale ministro dell'Interno.

E resta per due anni al suo fianco. Collabora allo smantellamento dei decreti Sicurezza, lavora con Roberto Maroni e difende a più riprese l'attuale amministrazione. Il che è anche comprensibile. C'è però un fatto sul quale i leghisti puntano il dito: l'inchiesta parte dopo un controllo a settembre 2020. Il Carroccio aveva lasciato il Viminale già da un pezzo. E sul contrasto al caporalato il nuovo ministro ha speso molte parole in questi anni. Normale che ieri mattina le notizie in arrivo da Foggia abbiano provocato un mezzo terremoto. Sulla Lamorgese è scattato il tiro incrociato, da destra a sinistra. Stavolta perfino Leu la attacca, chiedendo di «riferire in aula» sull'accaduto. Salvini parla di «disastro».

Per Giorgia Meloni «il Viminale vacilla sempre di di trattarsi dell'ennesimo tentativo andato a vuoto (non a caso la Lega non si accoda a questa richiesta). Uno spiraglio, però, stavolta potrebbe aprirsi. La Lamorgese è sopravvissuta al passaggio dal Conte-bis a Mario Draghi per una semplice ragione: è stato Sergio Mattarella a insistere perché venisse garantita continuità all'Interno. E ovviamente l'attuale inquilino del Quirinale continuerà a proteggere il ministro fino all'ultimo. Tutto ciò, però, significa anche che a partire dall'elezione del nuovo capo dello Stato gli equilibri al Viminale potrebbero tranquillamente essere modificati.

 

 

 Quest' ultima inchiesta, d'altra parte, rappresenta l'ennesimo colpo all'immagine della Lamorgese, difesa solo da Giuseppe Conte che parla di «attacchi pretestuosi». Sul caporalato anche il vice del ministro, Nicola Molteni, non risparmia critiche: «Il punto», spiega a Libero, «è che vanno bene le leggi contro lo sfruttamento, i protocolli e i tavoli per contrastare questo fenomeno. Ma finché non ci si rende conto che il problema è il contrasto dell'immigrazione clandestina faremo poca strada». La ragione: «Negli ultimi due anni sono sbarcate 100.000 persone sulle nostre coste. Fino a quando avremo numeri simili sarà difficile muoversi». In altre parole, attraiamo disperati disposti ad accettare cifre da fame per mangiare. ell, Y Un modello di immigrazione senza senso. Meglio cambiare, se sarà possibile. 

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