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Mario Draghi "atermico": la parola che spiega il destino del premier (e perché rischia di cadere)

Fausto Carioti
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Mario Draghi passeggia sulle macerie dei Cinque Stelle. Lo fa da «atermico», come lo chiamavano già ai tempi della Banca d'Italia, da atarassico, senza un briciolo della commozione che pochi giorni fa ha mostrato tra i palazzi sventrati di Irpin. Per aggirare lo scoglio di quella che appariva come la seduta parlamentare più insidiosa, con i grillini di fede "contiana" intenzionati a votare una risoluzione che avrebbe dovuto impedire l'invio di armi all'Ucraina e i "dimaiani" impegnati a contarsi in vista della scissione, gli basta leggere il più democristiano dei suoi discorsi. L'allievo dei gesuiti parla nell'aula di palazzo Madama per venti minuti, ripetendo le cose che dice e ridice dal 24 febbraio, meno qualcuna. Evita infatti di pronunciare parole come «armi» o «forniture militari», che equivarrebbe a mettere il dito sul nervo scoperto. Si limita a dire che il suo governo, «insieme ai partner dell'Ue e del G7, intende continuare a sostenere l'Ucraina così come questo parlamento ci ha dato mandato di fare». Che significa anche con le armi e tutti i presenti lo sanno, però non è il caso di rimarcarlo. Meglio concentrarsi sulla «ricostruzione» del Paese invaso e assicurare che le sanzioni europee alla Russia «funzionano». 

 

 

 

IL RICHIAMO ALLA PACE A chi è più sensibile al rapporto con Mosca, e dunque a Matteo Salvini e a Giuseppe Conte, garantisce che «i nostri canali di dialogo» col Cremlino «rimangono aperti. Non smetteremo di sostenere la diplomazia e cercare la pace», anche se questa dovrà essere raggiunta «nei termini che sceglierà l'Ucraina». Pure nei colloqui con Putin, avverte, «ho più volte ribadito la necessità di porre fine all'aggressione e parlare di pace». Si dilunga sull'allargamento della Ue ai Paesi dei Balcani occidentali, argomento di discussione nel Consiglio europeo di domani, ma nulla dice sull'allargamento della Nato a Finlandia e Svezia, oggetto del vertice dell'Alleanza atlantica che si terrà tra una settimana. Quindi il problema delle forniture agricole, la necessità di sminare i porti ucraini, la promessa di «ridurre in modo significativo la nostra dipendenza dal gas russo già dall'anno prossimo» e l'impegno ad aiutare famiglie e aziende alle prese con i rialzi dei prezzi. Nessun sussulto, insomma, e anche la chiusura del discorso serve a togliere ogni sapore di straordinarietà al voto del Senato: «L'Italia continuerà a lavorare con l'Unione europea e i nostri partner del G7 per sostenere l'Ucraina, ricercare la pace, superare questa crisi. Questo è il mandato che il governo ha ricevuto dal parlamento». Tanto che Pier Ferdinando Casini, che parla subito dopo di lui, propone di far cessare lì i tormenti della maggioranza, sino a quel momento incapace di raggiungere un accordo sul testo della risoluzione. «Quando sono entrato in parlamento», dice l'ex leader del Ccd, «questo dibattito sarebbe terminato così: "Il Senato della repubblica, udita la comunicazione del presidente del consiglio dei ministri, la approva». Soluzione dorotea, perfetta per non litigare. Non finisce proprio così, ma ci vanno vicini. La risoluzione votata da tutti partiti della maggioranza (incluse le due anime del M5S) non ha nulla del primo testo scritto dai contiani, che avrebbe dovuto obbligare il governo «a non procedere a ulteriori invii di armamenti». Si limita ad impegnare l'esecutivo a garantire un «ampio coinvolgimento delle Camere» anche «in occasione dei più rilevanti summit internazionali» riguardanti «le cessioni di forniture militari». Contorsioni incomprensibili per gli elettori, utili solo a far proseguire tutto come prima, cioè senza la svolta che pretendeva Conte. Il premier può iniziare così il suo tour internazionale (Consiglio Ue, G7, vertice Nato) con le spalle ben coperte. Questo anche grazie all'intervento di Sergio Mattarella, il quale ha seguito la vicenda da vicino e, racconta chi gli ha parlato, ha avuto sino all'ultimo «diverse interlocuzioni» con Draghi, nonché contatti diretti con alcuni leader di partito.
 

 

 

SQUILIBRI DI GOVERNO Ma i problemi veri, per il governo e chi lo protegge, iniziano adesso. Assieme a Luigi Di Maio e ad altri ministri, oggi Draghi sarà a pranzo al Quirinale, come è tradizione prima di ogni Consiglio Ue, e la conversazione col capo dello Stato servirà anche per fare il punto sugli assetti della maggioranza, stravolti dalla scissione capitanata da Di Maio. Oltre al titolare della Farnesina, stanno per abbandonare il M5S il viceministro Laura Castelli e almeno tre sottosegretari. I quali intendono però restare al governo, d'intesa con Draghi, che non vuole cambiare la squadra. I Cinque Stelle di Conte, che dopo l'emorragia sono comunque il secondo gruppo della maggioranza (sorpassati dalla Lega), si scoprono sottorappresentati nell'esecutivo e - manuale Cencelli alla mano - potrebbero chiedere al premier di riequilibrare la situazione tramite un rimpasto. Al momento non intendono farlo, preferendo sfruttare l'occasione per accusare Di Maio di indebita occupazione di poltrone. Però la contraddizione è seria e Salvini prova subito a farla esplodere: «Se qualcuno rimane nel governo senza rappresentare nessuno, un problema ci sarà. A nome di chi va in giro per il mondo il ministro degli Esteri? Non ho capito chi rappresenta...». Sotto l'aspetto istituzionale, la soluzione è chiara: per rimuovere Di Maio e gli altri occorre un voto di sfiducia in parlamento: ipotesi lontana. Da un punto di vista politico, però, la questione sarà molto più complicata.

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