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Vittorio Feltri, la rivelazione: "L'unico uomo che ha domato Umberto Bossi"

Vittorio Feltri
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Ricordo i miei anni Novanta da giornalista, durante i primi successi politici della Lega, come se avessi cavalcato a fianco di una mandria di cavalli selvatici lanciata a tutta birra, perché mentre nessuno ci capiva niente stava esplodendo un fenomeno in bilico fra un salto nel futuro e una restaurazione medievale, fra la politica e l'antipolitica, fra idee per lo più chiare e azioni talvolta confuse: le camicie verdi, la Padania libera, «la Lega ce l'ha duro», il federalismo, l'antimeridionalismo, Roma ladrona, Alberto da Giussano, la bandiera biancocrociata della Lombardia, l'ampolla con l'acqua del Po, la Guardia nazionale padana, Miss Padania, il pratone di Pontida, la crociata contro gli extracomunitari.

Il centro turbolento di quel movimento, nonché il suo inventore, fu Umberto Bossi: un giovane uomo zazzeruto che ne incarnava tutte le contraddizioni, con quella sua italianità metalmeccanica, la brutale affabulazione (sembra un ossimoro, non lo è), la capacità di intrigare sia la classe lavoratrice sia la borghesia, la canottiera di cotone bianco e spesso, con le spalline larghe, con cui perculava le camicie di sartoria dei parlamentari. Il suo carattere includeva anche un campionario di fragilità umane che tuttavia, invece di intaccarne la forza, alla distanza hanno radicato l'impressione di una sincerità di fondo che agli uomini della Prima Repubblica era aliena: la malattia, la fissità del volto in una smorfia causata dall'ictus, gli errori politici, le inchieste giudiziarie, gli scandali in cui venne coinvolta la sua famiglia. Forse molti se ne sono dimenticati, oppure non c'erano, ma tutto è accaduto molto prima di Matteo Salvini, per mano di quell'uomo poco generoso di sorrisi, dalla voce «profonda, virile, dolce e antica come quella di Buscaglione», aveva scritto Natalia Aspesi, il vitalismo di «un attore formidabile», disse Indro Montanelli.

 

 

L'INIZIO - Conobbi Bossi nel 1987, ero al Corriere della Sera: era estate e la Lega aveva ottenuto i primi due seggi in Parlamento. Uno l'aveva conquistato l'Umberto al Senato; l'altro, alla Camera, era andato di risulta (grazie alla rinuncia del capo che aveva vinto anche lì) a Giuseppe Leoni, un Sancho Panza che gli stava dietro da sempre. Non erano spuntati dal nulla: quattro anni prima l'archetipo del partito indipendentista regionale, la Liga Veneta, aveva ottenuto due seggi. L'aria che in Veneto aveva cominciato a muoversi, in Lombardia era diventata un vento: in Valbrembana la Lega Nord aveva raggiunto il 10 per cento, lo stesso in Valseriana e in alcune zone del Varesotto. Erano dati evidenti, non erano folklore né rappresentavano una semplice curiosità, ma un segnale vero. La politica stava curvando, molti democristiani di Bergamo e Varese si erano avvicinati al piccolo partito di Bossi. Da quel momento non lo persi più d'occhio.

Nel 1992 ero appena diventato direttore dell'Indipendente, quotidiano che in quel periodo non navigava in buone acque. Una sera venni invitato a Roma per una cena a casa di Pierluisa Bianco, la mia vice al giornale, e di suo marito Giulio Savelli: al tavolo con noi c'era anche Bossi, così colsi l'occasione e gli chiesi una mano per aumentare le vendite del quotidiano, che all'epoca vendeva meno di 20mila copie. La settimana seguente, sul palco di Pontida, Bossi, agitando il microfono come un randello e saltellando alla Celentano, invitò la platea a comprare l'Indipendente: «Quel direttore non è filoleghista ma ha per noi lo stesso rispetto che ha per gli altri partiti». In effetti all'epoca la Lega era considerata meno della merda, ma per gli iscritti era più che un partito, era una fede. Per loro le parole del capo furono abbastanza. E infatti, nel giro di una settimana arrivammo a 40mila copie. Fu uno scambio di cui io ebbi tutti i vantaggi, perché davvero ritenevo la Lega un fenomeno da tenere in prima pagina, quindi me ne sarei occupato comunque. Bossi aveva puntato la Prima repubblica come un meteorite sui dinosauri, ben prima che il meteorite più fragoroso, cioè Mani Pulite, calasse sull'Italia dei primi anni Novanta. Aveva capito tutto, fiutava anche le molecole in movimento a mezzaria, e in quegli anni si erano mosse.

NUOVO VOCABOLARIO - Carnale e sanguigno, il capo dei "barbari" era uno spaccone con gli occhiali a goccia che, oltre che con le parole, parlava con le mani: andava volentieri di corna, dito medio e gesto dell'ombrello. Con uno stile diverso, lo faceva anche Berlusconi, era il nuovo vocabolario della politica. Bossi era quasi arrivato alla laurea in medicina, anzi sarebbe stato anche uno studente brillante, ma per natura era disordinato e lo era tutto quello che faceva: era disordinata la sua cultura, erano disordinati i suoi primi lavoretti che aveva acchiappato qua e là, suonava il pianoforte in un complessino, aveva seguito un corso di elettronica. Aveva però un personalità dirompente e creativa, al di là delle apparenze era di una pasta fine, e il suo carattere lo portò fino a essere testimone, anzi coartefice, della fine della Dc e con lei della Prima Repubblica.

Di questo tracollo Bossi incarnò un sentimento, Mario Segni un altro. Al Nord i lumbard si erano affermati per due ragioni: la prima è che si presentavano come l'esatto contrario dei partiti che avevano governato per decenni. La seconda è che, pur nella confusione dei loro programmi, non mancarono mai di rassicurare l'opinione pubblica e soprattutto la classe media sul rispetto di alcuni valori basilari (la difesa del modello occidentale, della proprietà privata, del capitalismo e dell'impresa) e sul rigetto del socialismo, cioè del centralismo e del pauperismo di sinistra.

 

 

Ecco perché chi nei palazzi romani liquidò il fenomeno leghista sentenziando che si trattava di un incendio destinato a spegnersi per assenza di vento, davvero non aveva capito niente. Ancora mi ricordo di un confronto tra Umberto Bossi e Ciriaco De Mita a "Porta a Porta" di Bruno Vespa: era il 1996. De Mita, un'esteta della politica, si esibì in una ragnatela di ragionamenti con i quali cercava di portare il leader della Lega in secca, verso un dibattito articolato sul federalismo. Non funzionò: dopo il monologo del leader scudocrociato, Bossi semplicemente fece il Bossi, e rispose: «Táches al tram», attaccati al tram, sufficiente per mandare all'aria il castello del suo avversario e mandando in visibilio non solo i suoi, ma un gran numero di italiani stufi dei bizantinismi democristiani, dai quali si sentivano presi in giro. Bossi aveva già previsto anni prima la fine della Dc, quando affermò che il bresciano Mino Martinazzoli era «un chierico per il funerale finale» del partito. Anche io ci misi del mio: avevo soprannominato Martinazzoli "CrisanteMino". E infatti toccò a lui accompagnare alla tomba un partito già sderenato, distrutto al suo interno da faide e scandali.

IL CASO ENIMONT - Tutti sappiamo che la natura degli uomini non cambia solo indossando una casacca, e che gli stupidi e i disonesti sono nel mondo equamente distribuiti, così capitò che nel 1993 anche la Lega finisse nel tritacarne di Mani Pulite e del processone Enimont, a causa di 200 milioni di lire elargiti dal gruppo Gardini-Ferruzzi: la consegna era passata per le mani dell'allora tesoriere Alessandro Patelli, bergamasco di Fiorano al Serio, ex idraulico. Io lo definii «un gran pirla» e lui stesso ammise: «Sono stato un pirla». Per il partito fu una battuta d'arresto: «Il movimento di Bossi non può permettersi di essere uguale agli altri», commentai sulle colonne dell'Indipendente. Il segretario allora s' inventò un colpo di teatro: raccolse in donazioni una cifra analoga, 200 milioni, durante il secondo congresso della Lega ad Assago, e si presentò al pubblico ministero Antonio Di Pietro tenendo in mano un assegno intestato all'ex amministratore delegato della Montedison, Carlo Sama.

Di Pietro ovviamente lo rifiutò. Allora il Senatùr si recò allo sportello della Banca nazionale del lavoro che si trovava all'interno del palazzo di Giustizia di Milano, aprì un conto e mise l'assegno a disposizione di «chiunque avesse diritto» a riscuoterlo. I magistrati lo seguirono dabbasso e misero il conto sotto sequestro. La Lega fece una seconda pirlata nel 1994, quando il governo Berlusconi venne sfiduciato, il 22 dicembre. In quell'occasione Bossi staccò il suo partito dalla coalizione di centrodestra presentando una mozione di sfiducia. Era preoccupato all'idea che Forza Italia gli rubasse consensi al Nord, e si lasciò persuadere dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, da Rocco Buttiglione e da Massimo D'Alema a uscire dalla maggioranza, a unirsi strategicamente alla sinistra e a mandare in minoranza Berlusconi.

Lo chiamarono il "ribaltone", ma fu un errore grave, un po' paesano, e mi fece dubitare sulla sua capacità di pensare in grande. Bossi aveva grandi capacità oratorie, inoltre sapeva tagliare il fiato all'interlocutore quando la conversazione prendeva una piega difficile da gestire (leggi il «táches al tram» di cui sopra). L'unico che una volta riuscì a zittirlo fu Carlo Azeglio Ciampi, che nel '92 salì al Quirinale: il Senatùr gli diede del massone e promise che l'avrebbe accolto a pomodori in Parlamento, ma dovette incassare una sgridata. «Questo è il nostro primo incontro», si rivolse Ciampi a Bossi, «sta a lei fare in modo che non sia l'ultimo. Lei di me può pensare e dire tutto quello che vuole, ma non può dire alcunché di offensivo che possa rivolgersi contro l'istituzione. Questo non lo accetto».

Al termine del colloquio, Bossi, a denti stretti, dovette piegarsi: «Presidente, mi scuso». Non fece comunque tesoro della lezione: nel 2011, dal palco di una festa provinciale del Carroccio ad Albino, con accanto Roberto Maroni e Roberto Calderoli, disse: «Abbiamo subìto anche il presidente della Repubblica che è venuto a riempirci di tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord». E ancora: «Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn». Venne condannato a un anno di reclusione per vilipendio: nel 2019 Sergio Mattarella gli concesse la grazia. E ora, la Lega? A quasi quarant' anni dalla fondazione - la Lega lombarda ebbe il suo atto di nascita nell'aprile del 1984 - la Lega federalista non ha senso d'esistere: è come se si volesse fabbricare una nuova Auto del Popolo e venisse riproposto il Maggiolino, ho già scritto in varie occasioni. Io l'ho amato, il Maggiolino, ne ho avuti quattro o cinque. Ma a salirci a bordo oggi sembra di entrare in una garitta di metallo, non c'è neanche l'aria condizionata, consuma più olio che benzina, fuma dagli scappamenti come un polo siderurgico. Il Maggiolino oggi non lo vorrebbe più nessuno, tranne i nostalgici. E i nostalgici a me ispirano due possibili sentimenti, o mi fanno ridere o mi fanno paura. 

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