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Femministe contro Libero: ci insultano perché scriviamo "Giorgia"

Claudia Osmetti
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Da «Sputiamo su Hegel» a «sputiamo su Libero». C'è qualcosa che non va. E non va in una parte (mica nel tutto, ma poi ci arriviamo) del femminismo tricolore che sì, avrebbe dovuto essere in prima fila ad applaudire l'entrata a Palazzo Chigi di una donna e invece no, proprio non gli va giù che sia Giorgia Meloni.

Arrivano -i -fasci, una -giornata-triste, su su fino a tacciare di maschilismo (sì, di maschilismo) chi se ne fa un vanto. Lo rivendica. Lo scrive e lo colora (di rosa), perché sabato scorso è stata per davvero una ricorrenza storica, dopo 76 anni di premier con la cravatta e di politica fatta e decisa e pensata solo dagli uomini. Eppure apriticielo. Se provi a farlo notare parte il cancan sguaiato di chi ti accusa di «perpetuare il patriarcato travestito» (le virgolette si riferiscono a uno dei tanti commenti che rimbalza sui social).

DI DESTRA...
Su Instagram la pagina "ladonnaacaso" ci incolpa, nell'ordine: uno) di aver riferito che «per la prima volta alla guida del governo c'è una donna»; due) di aver usato l'articolo determinativo davanti al nome («La Meloni si gioca tutto»); tre) di aver optato per una scelta cromatica che si usa «per le femminucce» e quattro) nientepopòdimeno che di «cuginismo». Qualsiasi cosa voglia dire.

E pazienza se la notizia, tre giorni fa ma anche oggi e sarà lo stesso tra tre giorni, è esattamente quella: che «una donna» (non una a caso, ma pur sempre una donna), finalmente, è diventata presidente del Consglio. Viene da sospettare che il problema in realtà sia un altro, e cioè che si tratti di «una donna di destra».

I VERI PROGRESSISTI
Ma allora lor signore dallo sdegno facile (e a senso unico) si dovrebbero fare una breve carrellata storica perché da Margaret Tatcher ad Angela Merkel, da Condoleezza Rice a Golda Meir, sono i partiti conservatori che arrivano laddove quelli progressisti tanto blaterano e poi s' impantano. Segno che, forse forse, le quote rosa non funzionano granché e che la sinistra di mezzo mondo, se fosse seria la metà di quanto s' incensa, dovrebbe prenderne atto.

Per tutto il resto non vale la pena di ribadire che il termine "femminucce" noi non lo abbiamo mai usato (com' è che dice, la saggezza popolare? Che la malizia è spesso nelle orecchie di chi ascolta piuttosto che nella bocca di chi parla?). Mentre sul fronte del "cuginismo", espressione che non è manco presente nei tomi della Treccani, qual è il problema? La freccetta che, sui social, lo indica punta a un articolo di Renato Farina dal titolo: «La cavalcata di Giorgia dalla Garbatella al potere». E allora? È andata così: magari è il nome proprio, questa volta che disturba? Ma basta sfogliare una qualsiasi edizione di Libero per accorgersi che un identico trattamento è riservato agli uomini (una su tutte, l'apertura del 19 ottobre: «Silvio, fermati»). Niente. Un certo femminismo (ci siamo arrivati) quello dell'uguaglianza a tutti i costi, rimugina, rosica e si fa prendere dall'ideologia. E non ha ancora imparato la lezione delle "compagne" che, negli anni Settanta, avevano capito che "differenza" non è una parolaccia, che le diversità sono arricchimento e ignorarle è un errore. Ma il discorso, a questo punto, si fa complesso: vaglielo a spiegare a quel femminismo daltonico che dice rosa e vede nero.

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