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Mario Monti: "Meloni e Schlein? Su cosa devono lavorare"

Pietro Senaldi
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Tra gli obiettivi di legislatura della maggioranza c’è la riforma presidenzialista. Pensa che sarebbe utile all’Italia, e in che termini?
«La considererei molto pericolosa, non tanto per il rischio di derive autoritarie, ma semplicemente perché avrebbe effetti opposti a quelli auspicati dai fautori. Con il presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo e al tempo stesso capo dell’esecutivo, l’Italia diventerebbe un Paese più conflittuale e meno governabile».

Sembra un paradosso a dirsi...
«Più conflittuale perché toglierebbe di scena l’unica figura, il presidente della Repubblica eletto dal Parlamento a larga maggioranza, che a prescindere dal suo passato viene rispettato e riconosciuto da tutte le parti politiche ed esercita un ruolo di moderazione. Meno governabile, perché una piena contrapposizione tra maggioranza e opposizioni, come si osserva spesso negli Stati Uniti e in Francia – le due più collaudate repubbliche presidenziali – rende quasi impossibile trovare quel consenso su misure necessarie e urgenti in situazioni di emergenza, che in repubbliche parlamentari come la Germania o l’Italia è stato più volte possibile ricorrendo a governi di grande coalizione odi unità nazionale».

Come si può allora rendere più incisiva e indipendente l’azione di governo?
«Sono favorevole a un rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. Anzitutto, come ho ricordato in Senato nel dibattito sulla fiducia al governo Meloni, il premier già oggi ha il diritto-dovere di “dirigere la politica generale del Governo”, anche perché “ne è responsabile” (articolo 95 della Costituzione). Sarebbe inoltre opportuno rendere più agevole la rimozione di singoli ministri da parte del premier, prevedere il voto di sfiducia costruttiva come ad esempio in Germania, Belgio e Spagna, e magari considerare l’ipotesi, più impegnativa, che il premier sia eletto direttamente dal popolo».

Come mai Macron in Francia non riesce a portare l’età pensionabile a 64 anni, aumentandola di fatto di un anno, e a lei riuscì di alzarla di cinque in due settimane?
«In effetti, malgrado l’ascendente personale e la capacità politica che tutti gli riconoscono, Emmanuel Macron in sei anni (il primo mandato e il primo anno del secondo mandato) non è ancora riuscito a fare una riforma delle pensioni sensibilmente meno profonda di quella varata dall’Italia in due settimane nel novembre-dicembre 2011. Elsa Fornero e io siamo stati spesso invitati a discutere questo tema in Francia. In queste occasioni, la professoressa Fornero illustra i contenuti della riforma da lei predisposta, le ragioni di equilibrio finanziario ma soprattutto di maggiore equità tra le generazioni che l’hanno ispirata. Da parte mia, ricordo in quale contesto di sfiducia dei cittadini verso la politica e di crisi finanziaria acuta ci venne chiesto di intervenire con urgenza».

Ma è una questione di abilità vostra e scarsa incisività di Macron o di contingenze?
«Faccio, in modo rispettoso, un paragone con la Francia. La loro è una Repubblica presidenziale: il presidente ha grande forza in teoria, ma ben difficilmente può mettere in campo l’unità nazionale, come noi nella nostra modesta e imperfetta repubblica parlamentare riuscimmo a fare, su impulso del presidente Napolitano e con il più ampio voto di fiducia che il Parlamento abbia mai espresso e con le parti sociali dimostratesi molto responsabili. Inoltre, da noi la riforma delle pensioni non sarebbe bastata: per agire con equità (forse un governo “tecnico” non dovrebbe curarsi di questo, ma per i miei colleghi e per me era fondamentale) e per ricostruire la fiducia dei mercati verso l’Italia, varammo – sempre in quelle due settimane - un ampio pacchetto con varie altre riforme, che gravassero in modo equilibrato sulle diverse parti politiche e sociali. Dovendo noi scontentare un po’ tutti, lo scontento riguardante le pensioni non aveva altrettanto spazio nelle prime pagine. Macron invece ha dovuto concentrarsi “solo” sulle pensioni. Ha avuto la fortuna di creare meno infelicità complessiva di noi, ma più concentrata su una sola parte. Infine, Macron non ha avuto l’ “aiuto”, il terribile aiuto, di una crisi finanziaria che stava per portarci al default».


Per il presidente Mario Monti è quasi un momento di rivincita personale. Il partito fondato da Giorgia Meloni anche in opposizione a Gianfranco Fini, che di lì a poco si sarebbe presentato alleato di Lista Civica, la forza fondata dal senatore a vita, è al potere dopo dieci annidi opposizione. Ma si mostra prudente nei conti e in politica estera, quasi come se lo spirito del professore bocconiano aleggiasse ancora a Palazzo Chigi.

Sostenuto da tutti i partiti tranne la Lega (i grillini non erano ancora in Parlamento) lei di fatto ebbe una forza di governo paragonabile a quella di un presidente eletto e riuscì a imporre misure gravose: come fu possibile?
«Ho cercato di spiegarlo sopra, paragonando la situazione dell’Italia di allora a quella francese. Dovrei però aggiungere una difficoltà ulteriore, a carico nostro. Il mio governo - entrato in carica nel novembre 2011 dopo le dimissioni del presidente Berlusconi dovute all’uscita della Lega dalla sua maggioranza, e con l’appoggio parlamentare dello stesso Berlusconi e del Popolo della Libertà, oltre che del Pd e del Terzo Polo - sapeva che avremmo governato al massimo per un anno e mezzo, fino al termine della legislatura. Ma talune parti della maggioranza non ci facevano mancare ammonimenti frequenti sul fatto che avrebbero potuto “staccare la spina” in qualsiasi momento. Ma anche questo svantaggio rispetto al presidente francese, se certo non accresceva la nostra serenità, può avere contribuito a non farci perdere neppure uno dei giorni, non sapevamo quanti, in cui ci veniva chiesto di salvare il nostro Stato dal default».

Anche Draghi era sostenuto da ampia maggioranza ma la sua azione è stata meno incisiva. Perché condizionato dal perseguimento di altri obiettivi?
«Non mi permetto di fare confronti con il governo Draghi, più autorevole del mio sia per la personalità del premier sia perché i partiti che l’hanno sostenuto hanno fatto a gara nel fare entrare come ministri i loro esponenti migliori. Questo a me i partiti lo rifiutarono, probabilmente non desiderosi di esporsi in prima persona nelle decisioni impopolari che in quella fase – a differenza che in quella affidata a Draghi, di impiego dei fondi europei – sapevano sarebbero state inevitabili. Vorrei invece affermare, senza riferimento a nessun governo in modo specifico, una convinzione profonda maturata in me prima, durante e dopo la mia esperienza di governo. Soprattutto in momenti di grandi difficoltà, chi governa politico o tecnico che sia - non può fare davvero l’interesse del Paese se non è pronto a perderci personalmente, in immagine, popolarità, consenso.

Guardiamo alle leadership recenti in Italia, anche dopo Berlusconi: dalla Meloni alla Schlein, con le appendici di Salvini e Conte: significa che il Centro in Italia è impossibile o che i consensi del Terzo Polo si impenneranno?
«Può darsi che, dal punto di vista elettorale, le vittorie del cosiddetto “Centro” diventino sempre più difficili. Ma c’è una sorta di contrappasso. Forse il Centro non vince le elezioni, ma poi nel governare di fatto convergono tutti su politiche di “Centro”, abbandonando le sirene con cui alle elezioni ammaliano gli elettori di destra odi sinistra. Pensiamo, in ordine di ingresso, a Sánchez, Scholz, Meloni, Sunak e allo stesso Macron».

Che giudizio dà dell’ascesa e dei primi passi da premier della Meloni?
«Da quando governa ho espresso più volte, in Senato e altrove, giudizi positivi, soprattutto in materia di rapporti con l’Europa e di bilancio pubblico (con l’importante eccezione a questo riguardo del tema delle diseguaglianze). Certo, anche Giorgia Meloni ha dato prova di grande trasformismo, rispetto alle posizioni tenute (e usate come clava, anche verso di me) nei dieci anni precedenti. Ma, a differenza di altri trasformisti che hanno cambiato posizioni mantenendo però la stessa rozzezza e cinismo, il che rende poco credibili le loro trasformazioni, la presidente Meloni mi dà l’impressione di ragionare davvero, e a fondo, sulla complessità dei problemi, sulla difficoltà delle soluzioni e di credere genuinamente in quel che dice e cerca di fare. Spero che questo mio giudizio si confermi fondato».

La posizione ultra-atlantista della Meloni è dovuta solo alla necessità di accreditarsi presso la comunità internazionale o è anche legata alla sua ricerca di una nuova strada in Europa, alternativa all’asse franco-tedesco?
«Penso che sia una posizione che il premier Meloni abbia per convinzione. Non credo che la viva come una via alternativa a quella di un’alleanza con Francia e Germania: non è necessario e sarebbe un grande errore. Il posto dell’Italia in Europa è li, a fianco di quei due, ma anche per incalzarli e far modificare all’una, all’altra o a entrambe determinate posizioni».


Però Berlino e Parigi spesso sembrano avere un atteggiamento ostile nei nostri confronti...
«Quando è toccato a me lavorare con loro, pur dalla posizione debolissima di Paese sull’orlo del default, siamo riusciti a rompere per una volta l’asse franco-tedesco, portando il presidente Hollande dalla nostra parte e inducendo la cancelliera Merkel ad ammettere che la BCE avrebbe potuto sostenere i titoli di Paesi soggetti ad attacchi speculativi. A proposito di trasformisti, in quel tempo Meloni (che di recente ha smesso), Salvini (che continua imperterrito ancor oggi, forse per sovrano disinteresse per la realtà), nonché Grillo e un’intera genìa di grillini mi additavano ai nostri concittadini come il “cameriere” della Merkel, ben assecondati dai giornali vicini a loro».

Recentemente ha fatto discutere una dichiarazione del ministro Valditara. Lei riterrebbe giusto aumentare gli stipendi dei prof che insegnano al Nord per tappare i buchi di organico, come suggerito dal ministro?
«Non sempre apprezzo le dichiarazioni, o i silenzi, del ministro Valditara. Su questo, non ha torto. Sul tema dei differenziali retributivi pesa da settant’anni l’infelice termine “gabbie salariali”. In realtà, la pretesa di disconoscere il diverso costo della vita nelle varie regioni ha l’effetto, non solo nella scuola ma in generale nell’economia e nella società, di ingabbiare il potenziale di occupazione e di crescita del Sud. Certo, si abbandonarono le gabbie salariali in nome dell’equità. Purtroppo, però, di un’equità falsa perché si esprime in termini puramente nominali, non reali».

Crede che il governo della Meloni rappresenti una svolta culturale per il Paese, o meglio la Nazione?
«Se posso concludere questa intervista con un’osservazione più generale, direi che l’attuale governo di destra ha un contributo importante da dare alla crescita culturale ed economica dell’Italia, così come in altri modi e pur con errori hanno fatto per decenni i governi di Centro-sinistra e di Centro-destra. Se non erode la propria credibilità in tesi bizzarre, come quella su Dante padre del pensiero di destra, questo governo potrebbe aiutare l’Italia a riconsiderare posizioni che fecero la loro irruzione nel 1968 e poi si rivelarono (accanto ad altre che hanno contribuito in modo positivo alla società italiana) nocive per l’effettivo sviluppo economico-sociale. Di solito, ciò è avvenuto perché si è data preminenza all’etica delle intenzioni rispetto all’etica della responsabilità, come avrebbe detto Max Weber. Politiche ispirate a valori elevati, ma disattente alla loro applicazione concreta e agli effetti indiretti sulle condizioni effettive di vita e di lavoro di quei soggetti deboli che si volevano tutelare, hanno spesso comportato che proprio tali soggetti hanno subito le conseguenze più negative».

L’opposizione non sarà felice di questa affermazione...
«L’Italia è entrata in una fase nuova, ricca di potenziale per il Paese. La Destra riassume sicurezza e un certo vigore intellettuale e la Sinistra si dota, con Elly Schlein, di una forte personalità ancorata ai principi, come è giusto, ma non ancora alla realtà, come è necessario. Secondo me, questa nuova fase potrebbe, e certo dovrebbe, vedere un grande confronto di idee, anche aspro, che porti entrambe le parti a depurare le proprie posizioni tradizionali da dogmi legati ad altre epoche storiche. E a ricercare un minimo comune denominatore più pragmatico, che avvicini l’Italia a politiche più adatte ai giovani e alle generazioni future». 

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