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Liceo del Made in Italy? Meloni, ottima idea ma... ecco come devono chiamarlo

Corrado Ocone
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L’idea di un “liceo del Made in Italy”, come con semplificazione linguistica lo stiamo chiamando un po’ tutti, non è affatto una cattiva idea. Anzi potrebbe essere un fattore di ulteriore crescita economica e di arricchimento culturale in senso lato per l’intero nostro Paese. Con due avvertenze non secondarie, che vanno chiarite per coloro che sono sempre pronti a criticare le idee che vengono dall’esecutivo di centrodestra, in tutte le sue componenti, e dal presidente Giorgia Meloni, che il progetto di un istituto di istruzione secondaria superiore così orientato l’ha rilanciata a Verona nel corso del Vinitaly (l’idea era già presente nel programma di governo e aveva trovato l’approvazione convinta, in audizione parlamentare nel dicembre scorso, del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara).

 

STORIA E IDENTITÀ

Da una parte, il nuovo istituto, altamente professionalizzante, non va messo in concorrenza o in antitesi col più tradizionale liceo classico, che è anch’esso una “eccellenza italiana”; dall’altra, esso non va concepito in modo autarchico, ma deve anzi aprirsi al mondo per tutelare, diffondere e rafforzare ancor più in esso un marchio che è già oggi indice e sinonimo di alta qualità. Il liceo classico, come è noto, fu concepito da Giovanni Gentile giusto un secolo fa, con la riforma della scuola che porta il suo nome, ma le idee che lo ispiravano erano state già ampiamente assunte da Benedetto Croce che ministro a Viale Trastevere era stato immediatamente prima fra il 1920 e il 1921 col quinto e ultimo governo Giolitti. La “classicità” a cui si alludeva era quella greco-latina e umanistico-rinascimentale su cui si fonda la nostra identità nazionale e che significa spirito critico, razionalità concreta, saggezza suffragata dall’esperienza dei classici. Nonché senso politico e senso della storia. In un tempo di conformismo di massa e di cultura woke trionfante, la cultura classica serve al cittadino e alla democrazia e non possiamo farne a meno se non vogliamo soccombere inermi alle sirene del globalismo. All’Italia serve però anche affermare la sua identità culturale concreta e legata ai territori, alle capacità creative del grande artigianato e della manifattura di qualità, di tutto ciò che già oggi connota l’estro e l’inventiva italiana e che ci fa riconoscere come italiani nel mondo: nei settori dell’arredamento, della moda, dell’arte, della gastronomia di qualità e legata alle comunità di prossimità. È una ricchezza la nostra, materiale e culturale insieme: un fattore cioè di identità e di ricchezza che è cresciuto a dispetto del disinteresse di politica e istituzioni. E che è giusto sia ora potenziato con un progetto ben pensato e che trasformi gli istituti tecnici e agrari in qualcosa di più qualificante e incisivo. D’altronde, non era un po’ questa la tradizione delle botteghe rinascimentali, dove gli allievi ricevano una formazione completa e ove attività intellettuali e manuali, teoria e pratica, si fondevano in una sintesi virtuosa che poneva l’Italia all’avanguardia?


Non c’è tanta cultura e sapere tramandato anche in un prodotto ben fatto e curato nei dettagli, come ci ha fra l’altro insegnato l’accreditato sociologo americano Richerd Sennett nel suo L’uomo artigiano?
Ciò non significa affatto però che dobbiamo chiuderci a riccio entro i nostri confini e guardarci l’ombelico, ammesso e non concesso che fosse mai possibile: solo coltivando e curando le nostre specificità e le nostre identità possiamo dare un contributo alla cultura universale e ricevere da essa stimoli che possono esserci utili.

 

NESSUNA CHIUSURA

Le altrui esperienze vanno integrate e assimilate non assunte acriticamente, ma per farlo dobbiamo prima sapere chi noi stessi siamo e cosa vogliamo. E dobbiamo essere orgogliosamente fieri dei nostri prodotti e delle nostre competenze combattendo le contraffazioni e le imitazioni e trasmettendo ai nostri figli competenze che nascono dall’esperienza di secoli e che se non coltivate rischiano di essere perdute per sempre. È questo il senso di un programma politicamente e concretamente nazionale, non nazionalistico; globale, non globalistico. Il progetto del “liceo del made in Italy” si muove indubbiamente in questa direzione e come tale va, da un lato, suffragato da tutte le forze sane del Paese e, dall’altro, portato il prima possibile a termine dalla politica e dalle istituzioni. 

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