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Sinistra, amnesie storiche: quando il Partito comunista invocava l'Autonomia

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Francesco Carella
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Tra le tante costanti della vita politica del nostro Paese ve n’è una che affonda le radici addirittura nell’epoca preunitaria. Infatti, la riflessione sui rapporti fra lo Stato centrale e il sistema delle autonomie locali è al centro del dibattito fin dal 1851, quando Carlo Cattaneo scrisse che «il federalismo è l’unica via della libertà». Il teorico degli “Stati Uniti d’Italia” ha influito non poco sulla formazione della nostra classe politica dall’Unità ai giorni nostri. In tal senso, si può dire che vi è un lungo filo che parte da Luigi Carlo Farini, esponente di spicco della Destra storica, e raggiunge Roberto Calderoli, padre del Disegno di legge sull’autonomia differenziata.

Il ministro Farini nell’agosto 1860, dopo avere ricevuto l’imprimatur di Cavour, propose di conciliare «l’autorità centrale dello Stato con le necessità dei comuni, delle province e dei centri più vasti». Se, però, per il progetto Farini e subito dopo con quello del suo successore all’Interno Marco Minghetti gli ostacoli che ne impedirono la realizzazione avevano un fondamento storico rilevante (la fragilità di uno Stato giovane e la spinta disgregatrice lanciata nel Mezzogiorno dal brigantaggio) per ciò che riguarda la riforma del ministro Calderoli le ragioni sembrano meno nobili e più legate a un approccio demagogico da parte di una sinistra che ha dimenticato la sua stessa storia. Vale la pena di ricordare a Elly Schlein che la questione dell’autonomia era già al centro dell’attenzione di Palmiro Togliatti ed è sempre stata presente nel dibattito politico interno al Partito comunista. Del resto, già nel lontano 6 novembre 1975 in un’intervista a “La Stampa” il presidente della regione Emilia Romagna Guido Fanti individuava nella «forma decentrata dello Stato l’unica possibilità per il Paese di uscire dalla crisi che stava attraversando».

 


Egli propose di lavorare attorno a un «progetto di aggregazione tra le cinque regioni della Valle Padana che avrebbero dovuto avere un ruolo fondamentale in una politica di programmazione regionale e nazionale». Un altro leader di primo piano del Pci, Renato Zangheri, nel corso di un dibattito parlamentare sulle riforme istituzionali nel maggio 1988, afferma che «il Pci auspica un energico decentramento legislativo con una reale rivitalizzazione degli organismi locali per mezzo di una concreta autonomia finanziaria e impositiva». Lo spartito non muta con il Pds. Il 12 dicembre 1994, in assemblea, il segretario Massimo D’Alema presenta «il federalismo come l’unico strumento in grado di realizzare una nuova unità del Paese». A rileggere le polemiche delle ultime settimane vengono in mente le parole del meridionalista Guido Dorso: «Occorre augurarsi che non ci siano più cervelli che concepiscano l’unità nazionale, sacra ed inviolabile per tutti gli italiani, come mezzo per continuare con lo sgoverno attuale». Quei cervelli sono ancora in mezzo a noi pronti a fare danni.

 

 

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